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Scenari militanti – Tesi provvisorie verso una nuova politica in movimento

Il nostro sabotaggio organizza l’assalto proletario al cielo. E finalmente non ci sarà più quel maledetto cielo!

A. Negri, Il dominio e il sabotaggio, 1977

La storia è una materia complessa, fatta di processi di lungo periodo e improvvisi strappi; di lunghe e invisibili trame fatte di corpi, lotte, macchine, ecologie, poteri, classi, eventi; di inaspettate emersioni della vecchia talpa; di fasi e congiunture che cambiano; di assemblaggi variabili di differenti forme di autorità e territori; di soggetti imprevisti; di continue trasformazioni. Ci sembra che in questi anni si sia aperto un momento storico per ampi tratti sotto il segno della novità sotto molteplici aspetti. Non solo la cosiddetta poli-crisi, l’assommarsi di molteplici crisi (ecologica, istituzionale, sociale, economica, etc.), ma anche la pandemia, la guerra in Ucraina e l’impennata dei processi di digitalizzazione. In questo vortice si apre un tempo nuovo, da comprendere, da cogliere, da agire. Riteniamo che le vecchie forme della militanza, le idee che le sostenevano, vadano di conseguenza messe fortemente in tensione, trasformate. Proviamo di seguito a proporre alcune tesi, parziali e provvisorie, di orientamento del nostro dibattito per iniziare a ripensare da capo l’agire politico militante. Ci sembra infatti che il nodo della militanza, al di là delle forme più o meno effimere di attivismo, sia una questione decisiva attraverso la quale si deve passare per poter conquistare capacità di capacità di rottura e di trasformazione reale.

  • Un anticapitalismo materialista, non moralista

Il capitale non è il Male, un nemico da giudicare da una posizione monastica da chi deterrebbe invece il Bene. Il capitale è una relazione sociale, una forza storica che ha plasmato e plasma la società-mondo, una forma di civilizzazione. Che, come tante altre nel passato, ha una genealogia, una serie di linee di sviluppo, e avrà una fine. Nell’avvicinare questa fine, troppo spesso l’alterità viene pensata come una critica dell’esistente come il sentenziare contro il consumismo, l’ipercomunicatività, il benessere, o altro. Critiche che purtroppo non si pongono sul piano delle condizioni materiali, ma di quelle ideali. Certo, dentro queste critiche si muove una forma di rifiuto che può e deve essere valorizzato sul piano della soggettività (e non, appunto, della morale). Ma ci sembra che questo non sia sufficiente. Appare invece decisivo sviluppare una postura politica collocata dentro e contro il capitale, con un punto di vista radicalmente immanente, alla ricerca delle forze materiali che possono rovesciarlo non dal punto di vista della sua critica morale o idealistica, ma delle possibilità concrete. Di un contro-uso della potenza capitalistica, che non va cercata fuori da esso ma dentro il rapporto di antagonismo che sviluppa il capitale.

  • Una politica della trasformazione, non della preservazione

I quartieri da salvare contro la gentrificazione, la natura da preservare contro l’azione umana, le forme di vita da difendere contro i nuovi modelli di consumo, etc. Da tempo il pensiero di chi dovrebbe puntare alla trasformazione radicale dell’esistente pare aver subito una bizzarra curva che lo porta spesso a guardare invece alla “preservazione”. Si costruisce spesso un passato mistico e idealizzato, preteso come autentico, che il capitalismo avrebbe corrotto, e che l’agire politico dovrebbe appunto difendere e riportare alla sua purezza originaria. Una sorta di nostalgia cala come nebbia sul pensiero critico. Pensiamo invece che l’azione politica della sovversione debba porsi nell’ottica di distruggere lo stato di cose presenti, certo, ma non per restaurare un ordine passato, quando per costruire una nuova opera collettiva, algoritmi di emancipazione, operazioni di liberazione. Per fare questo è forse giunta l’ora di mettere in discussione alcuni modelli di pensiero, alcune forme mentali consolidate che spesso procedono come automatismi. Un solo esempio: si è spesso abituat a pensare nei termini della metafora geometrica alto/basso. Dove il basso sarebbe intrinsecamente positivo e l’alto puzza di marcio. Ma siamo sicur che sia uno schema di pensiero efficace? Che davvero la realtà funzioni con chi decide “in alto” e il resto schiacciato sotto? Che il “noi” debba essere sempre pensato in basso? Non possiamo pensarci con geometrie più complesse?

  • Un nuovo discorso sul potere

Da tempo il tema del “potere” viene letto in modo, ci sembra, per lo più ingenuo, banalizzante, oppure polveroso, antiquato e ripetitivo, o finanche del tutto eluso. Pensiamo invece che una politica autonoma oggi debba prendere di petto la questione. Non si tratta evidentemente di rilanciare una “presa del potere”, semplicemente perché il potere non si prende, si costruisce. Intendiamo quindi il potere come una potenza collettiva di trasformazione. Si tratta dunque di cercare di costruire capacità trasformativa in grado di rovesciare i rapporti di forza attualmente vigenti nella società. Farsi potere collettivo, contropotere dunque. Capacità di imporre dei NO, di incidere qui e ora, ma anche di ripensare la possibilità di un progetto politico di rottura e di alterità. Immaginare la questione del potere anche alla luce delle teorie del “doppio potere” e nei termini di una teoria dell’organizzazione. L’eredità dei cicli di lotta degli anni Dieci, con insorgenze, parziali successi e grandi sconfitte, ci pare porsi anche attorno a questo tema, e al come poter costruire infrastrutture di durata per l’organizzazione dei conflitti ramificate in una serie di contropoteri.

  • Neither Vertical Nor Horizontal / Organizzazione come infrastruttura

Cosa vuol dire oggi organizzarsi contro il nostro presente? Una prima direzione per rispondere a questa domanda ci pare quella di scartare da una dicotomia che informa il dibattito su questo terreno. Spesso, infatti, l’organizzarsi viene vista o come una questione di costruire rapporti di “orizzontalità” o come la creazione di una “verticalità”. Da un lato, con un pensiero talvolta affine al grillismo delle origini dell’“uno vale uno”, l’organizzarsi viene pensato quasi come se le persone fossero una sequenza di numeri uguali da disporre su un piano orizzontale. Dall’altro, sembra che organizzarsi debba per forza di cose significare costruire a tavolino degli organigrammi, dei modelli di comando. Ci sembra piuttosto che l’immaginazione politica, l’arte dell’organizzazione, dovrebbe definirsi a partire da un pensiero “ecologico”, intendendo l’organizzazione come lo strutturarsi di un ecosistema complesso e variegato composto di forme assembleari e di momenti di verticalizzazione, di costruzione di diagonali e connessioni tra differenti ambiti di lotta e militanze, un processo di convergenza tra differenti soggettività sociali. Una continua ricerca in cui il tema dell’organizzazione può essere pensato come una infrastruttura, come complesso di elementi che consentano a una forza sociale di potersi esprimere e fluire, componendo, collegando e intermediando una serie di rapporti e garantendo la durata della possibilità di circolazione di lotte e conflitti.

  • Immaginari sociali da praticare

Da tempo ormai sembra essersi fatta silente egemonia nei mondi delle lotte sociali una curiosa ideologia, che per sentieri nascosti e tortuosi, dalla California è arrivata da noi. È la cosiddetta Californian ideology della Silicon Valley, un misto di correnti teoriche che mixa culture libertarie e hacker, l’utopia della prima rete Internet, con un viluppo di retorica anti-statalista di marca neoliberista. Una tecnoutopia anarco-capitalista. Lo sappiamo, è una provocazione la nostra, ma il fatto che il lessico e l’immaginario di molti movimenti abiti un lessico che deriva da quei mondi fa pensare. Oggi, infatti, il tema della comunità (community – slogan per altro del nuovo PD, e senza dimenticare che la ‘comunità’ è storicamente patrimonio della destra, con la sua idea di una collettività ristretta, unita da legami di terra e sangue… Che tempi strani) sembra guidare l’immaginario di molti/e, così come l’organizzarsi viene pensato a partire da un metodo politico spesso fatto di procedure astratte e metodi universali (che sembrano ricalcare l’idea della ‘neutralità della rete’) basato su altri concetti tipici dei social media come “condivisione” (sharing) e “consenso” (like). Oppure c’è come una gara su concetti usati da tutte le istituzioni come inclusività, sostenibilità… Insomma, talvolta a leggere un comunicato di qualche realtà “di movimento” (per quanto oggi, diciamolo chiaramente, un movimento non esiste) sembra di leggere un comunicato della Commissione europea. Pensiamo sia giunta l’ora di rompere con questo schema e praticare nuovi immaginari in grado di costruire una prospettiva autonoma su una vita bella, su cosa significhi il lusso comune, su cosa significhi appropriazione e distribuzione della ricchezza socialmente prodotta.

  • Classe e Soggettività

Dobbiamo riconquistare un concetto politico di classe, emancipandola dalle letture esclusivamente economiche o sociologiche. La classe non è un dato di fatto: esiste quando esiste la lotta e l’organizzazione di classe. La classe è quel divenire politico che nel destituire l’attuale sistema di potere estingue anche sé stessa. Negando nega sé stessa come soggetto costruito dal capitale. È pura trasformazione, contro ogni politica dell’identità chiusa e contro ogni intersezionalità che renda le differenze eterne e immutabili. La classe è plasmata da razza, genere, sesso, disuguaglianze spaziali e ambientali, ecc. e le lotte ecologiche, transfemministe, antirazziste, ecc. sono costitutive della (lotta di) classe. Al contempo, dire che la classe è un concetto politico non deve esimere dalla ricerca di una sua determinazione materiale, appunto. Si tratta insomma di mappare quelle che sono le linee dello sfruttamento contemporaneo e di comprendere dove questo può essere agito come rifiuto e organizzato come forza. La lotta di classe del nostro tempo oscilla tra la continua distruzione di capacità e possibilità umane operata dal capitale e la ricchezza di una composizione di classe digitalizzata, alfabetizzata, mobile, che dispone di una ampia dotazione di capitale fisso. L’operaietà metropolitana di oggi è circolante, forgiata da decenni di produzione just in time, in cui le aziende respirano al tempo del mercato precarizzando al massimo il lavoro e al contempo esponendosi a volatilità e grossi rischi. Una coltre sottile apparentemente inscalfibile ma in realtà anche molto debole. Oggi la composizione di classe, frastagliata e frantumata per linee gerarchiche di genere, razza, reddito, generazione, collocazione geografica, ha possibilità di tracciare nuovi scenari se riesce a convergere a partire da percorsi di autovalorizzazione e conflitto. Su questo terreno pensiamo che le lotte sulle differenti forme di reddito debbano trovare nuove direzioni. Così come i temi della razza e del genere, ovvero del razzismo e del sessismo, sono elementi che costituiscono la classe e sono oggi cruciali nei processi di soggettivazione che possono essere rovesciati da diagonali di frammentazione della classe a vettori di suo potenziamento.

  • Spaziotempo del battleground nella territorialità+

Le spazialità e le temporalità del conflitto sociale stanno mutando precipitosamente. La territorialità+, la territorialità aumentata che abitiamo, questo tessuto urbano digitale e transnazionale che plasma i luoghi dell’agire politico, va attraversato con lenti e pratiche nuove. Da un lato, il radicamento, il fare-territorio, intendendo con questo la (persistente) necessità di strutturarsi spazialmente dei conflitti – in un contesto in cui tuttavia questi si dispiegano sempre più entro logiche transnazionali, in cui i punti di impatto/scontro si moltiplicano e velocizzano, in cui le maglie digitali sono oggi costitutive del “territorio”. Dall’altro fare conflitto dentro, contro e oltre la territorialità+ significa sforzare l’immaginazione politica, combinare molteplici livelli di realtà, ri-pensare le contro-geografie del passato. Da questo punto di vista, assumendo l’ormai abbondantemente esauritasi fase politica dei “centri sociali”, quello su cui stiamo ragionando è sulla possibilità di costruire degli “hub” e una logistica delle lotte. Di mettere il sociale al centro e di un divenire-cyborg delle soggettività. Ci sembra anche utile fare un bilancio critico e auto-critico su alcune forme di movimento degli ultimi anni, dove spesso una visione ideologica e mitizzata, sostanzialmente “liscia”, dello spazio transnazionale – spesso legata a una temporalità invece rigida e scadenzata che non riesce a uscire da se stessa – ha forse spuntato di capacità conflittuale i movimenti.

  • Guerra e conflitto

Oggi è più che mai necessario praticare una politica di massa, una militanza in grado di farsi attivatrice di processi ampi e forze nuove, non auto-centrate nell’individualizzazione del puro gesto politico (più o meno mediatico). Senza tuttavia esimersi, quando necessario, dal muoversi come anche esigua minoranza. Le lotte a venire d’altra parte si inquadrano nel clima bellico che si diffonde sulla società, che disciplina e reprime le lotte. Regimi di guerra che tendono a saturare lo spazio e il discorso pubblico, con conseguenze assolutamente concrete: il riarmo, ad esempio. Ci sembra che le forze del conflitto sociale, volenti o nolenti, dovranno misurarsi su questo nuovo scenario, sollecitare e magari organizzare le forme del rifiuto ai regimi di guerra, con forme del conflitto e dello scontro politico, con linee di amicizia e di inimicizia, attualmente estremamente confuse e mischiate. Il tema dell’opposizione alla guerra è infatti compresso tra due polarità. Da un lato una visione sostanzialmente geopolitica, ossia un punto di vista dello Stato, a noi avverso, che spesso semplifica le dinamiche degli imperialismi e ricerca letture rassicuranti dei molteplici scontri sui processi di globalizzazione e le egemonie nel mercato mondiale. Dall’altro, una forzatura di un punto di vista unilaterale sulla resistenza ucraina e sul suo (senza dubbio legittimo) diritto di resistenza, che però diventa uno sguardo cieco se non riesce a situare anche alle nostre latitudini e nel contesto più ampio quanto sta accadendo. In entrambi i casi, si finisce per arruolarsi de facto in un fronte bellico, azzerando le possibilità di contrapposizione e silenziando una molteplicità di comportamenti e punti di vista contro la guerra (in Ucraina, e contro la Terza guerra mondiale in divenire). Aprire spazi di conflittualità sociale ampi significa anche indagare i limiti che molti movimenti degli ultimi anni hanno mostrato alle nostre latitudini, spesso rischiando di misurarsi più sul terreno dell’opinione pubblica e della rappresentazione che su quello del radicamento e dell’efficacia. Anche qui si tratta di impostare nuove bussole e ipotizzare nuove coordinate, in spazi tempi e soggetti sociali stravolti dai cambiamenti degli ultimi anni i cui profili ancora si fatica a definire. Nuove strade di inchiesta e conricerca da praticare.

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