«Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera».
Walter Benjamin
Contesto – La storia ha andamenti strani. Mai lineari. Talvolta concentrici, talaltra anacronistici. Spesso lenti e rarefatti. Sometimes, accelera, scarta, salta. Il 2020-2022 è un biennio che indubbiamente fa da spartiacque. Un prima e un dopo. Viviamo nel dopo. E forse non ci siamo appieno rese conto di quanto non abbiamo ancora preso le misure del nuovo mondo. Chi porta avanti oggi le stesse forme e proposte (pratiche, simboli, immaginari, slogan, etc.) del pre-, temiamo sia condannata alla (più o meno consapevole) marginalità e irrilevanza. Questo, a livello planetario.
Zoom-in – Bologna, 2024. Le dinamiche globali e le loro manifestazioni territoriali formano correnti tensionali che trasformano a ritmo svelto il tessuto socio-urbano. Spesso la compagneria fa ironia sulla “città più progressista d’Italia”. Suggeriamo sommessamente di leggere le pagine di Benjamin sul progresso, definitive in merito pur avendo un secolo. Perché sì, passateci la provocazione, Bologna è davvero la città più progressista d’Italia. Ed è in questo campo di gioco che bisogna collocarsi. È una battaglia di classe quella che si profila, non certo attorno ai paradigmi liberali oggi tanto in voga dell’inclusività e affini. Ma una contesa sulle risorse, sulla decisionalità politica, sui rapporti di forza. Una contesa sul futuro, non sul passato.
Vettori – La trasformazione di Bologna è un campo tensivo e di conflitto. L’ultimo anno è stato, nel suo piccolo, significativo. Ci sono segnali di disgelo delle lotte. Pensiamo all’incredibile mobilitazione per Giulia Cecchettin. Al potente e variegato movimento pro-Palestina. Alle tante occupazioni abitative. Alla lotta nel parco Don Bosco. Alle svariate manifestazioni di massa dal Rivolta pride all’8 marzo. Dal corteo antifa del 25 aprile ai tanti scioperi nella logistica e in vari altri settori che hanno puntellato l’annata. E sicuramente scordiamo molto. Queste lotte espressesi a Bologna hanno tutte mostrato potenzialità, ma anche enormi limiti. Nostri limiti. Di un noi ampio che purtroppo spesso si perde di vista nella nebbia delle piccole parrocchie, degli identitarismi, nelle miserie di chi guarda dall’alto in basso, nelle sfighe delle sette politiche.
Zoom-out – A noi interessa ragionare, a voce alta, per chi ha voglia di ascoltare e magari cospirare insieme, di cosa indicano i potenziali delle lotte e mobilitazioni già menzionate, di quali forme organizzative possono creare. Ci pare infatti che questo ecosistema, intimamente connesso ma spesso diviso più dalle/i militanti che dalle componenti sociali che lo attraversano/costituiscono, sia la base di partenza per ragionamenti sulla prossima fase politica. Alcuni dei vettori indicati sono in grado di esprimere continuità ma peccano di massificazione, altri creano eventi potenti ma non riescono a produrre quotidianità. Alcuni esprimono capacità di scontro e contropotere ma non determinano visione, altri alludono a prospettive ma non riescono a definire campi di battaglia politica.
Primi scongelamenti dopo gli shock pandemici e bellici…
«Impareremo così che la tattica non è scritta una volta per tutte sulle tavole della legge: è invenzione quotidiana, è aderenza alle cose reali e al tempo stesso libertà dalle idee-guida, una specie di immaginazione produttiva che sola riesce a fa funzionare il pensiero in mezzo ai fatti, è il vero passare a fare, ma solo per chi sa che cosa fare».
Mario Tronti, “La linea di condotta” (1966)
Ciò che più importa, ci pare di poter dire, è che però pare si stia finalmente scongelando l’iceberg che aveva assiderato il conflitto sociale tra il 2020 e il 2022. Si tratta dunque di provare a fare un bilancio sull’ultimo anno e mezzo abbondante di lotte in città (dalla “convergenza” del 22 ottobre 2022 a oggi) alla ricerca della costruzione di nuove linee di forza per i prossimi anni. Sfuggendo alle aporie dell’intersezionalità e alle cristallizzazioni identitarie dei brand politici, alla logica del clickbait, cercando di approfondire le dimensioni di inchiesta e conoscenza dei nuovi soggetti sociali e proletari che si affacciano sulla scena. La ricerca, per le realtà militanti, per noi rimane sempre quella attorno agli snodi tattici sui quali possiamo agire per dare spazio e ampliare le tensioni sociali – che, sole, detengono la strategia. L’ecosistema che si è profilato a Bologna, il compost di lotte possibile (dove con tale rimando si indica una dinamica non irenica ma conflittuale), dove può andare? Quali scommesse possiamo fare sul prossimo periodo?
Da un lato, i movimenti degli ultimi anni (da quelli transfemministi a quelli ecologisti, arrivando a quello della Palestina globale) ci pare confermino la necessità di costruire infrastrutture territoriali in grado di incanalare queste correnti transnazionali di lotta. Tuttavia, l’infrastruttura spesso non è sufficiente per dare direzione politica alla mobilitazione. Dall’altro lato, questa circolazione globale di conflitti tocca terra su tessuti territoriali diversificati. È infatti indubbio che si sia mossa ultimamente anche una politica “locale” che ha trovato a Bologna nella lotta al Don Bosco massima espressione. Questa ha definito un campo di battaglia che si misura sostanzialmente nello spazio della giunta municipale come nemico (finendo spesso, per lo più involontariamente, non per chiedersi quali forze sociali possano sollevarsi dentro e contro la trasformazione della città, ma ponendosi sul piano del “se ci fossi io a governare” …). Ci sembra che la tensione da sviluppare dovrebbe essere quella di promuovere piattaforme in grado di muoversi attraverso le differenti scale politiche. Una politica che guardi solo le correnti transnazionali finisce per non avere possibilità tattiche. Una politica che guardi solo al territorio finisce per non avere possibilità strategiche.
In tutto ciò, l’attuale congiuntura di guerra e la proliferazione dei suoi regimi non manca, va detto, di definire un inasprimento delle forme di repressione delle lotte sociali. In attesa di prossimi nuovi attacchi delle controparti, che arriveranno, basti riportare che negli ultimi 15 mesi sono state emesse a Bologna decine e decine di misure cautelari, numerosi avvisi orali di pericolosità sociale, e le denunce per vari episodi di conflitto (resistenze a sgomberi, scontri sotto la Rai, contestazione all’inaugurazione dell’anno accademico, occupazione della stazione, etc.) sono oltre duecento. Sarà sempre più così, il costo della lotta si è alzato. L’autodifesa delle lotte dovrebbe essere un minimo comune denominatore al di là delle divergenze.
… alcune questioni sul piatto …
Torniamo al tema del rapporto tra le “scale” della politica, alla tensione tra dinamiche planetarie, continentali, statuali, regionali, locali. Ultimamente pare troppo spesso che l’autonomia possa essere pensata ed esistere solo su piccola scala. La grammatica dell’autonomia è forse oggi meno utile di fronte alle sfide planetarie che stiamo affrontando? Nominiamo solo un grande tema, quello del cambiamento climatico. Certo, serve un certo grado di astrazione per pensarlo. Se lo si prende di petto, siamo sicure che nessuna soluzione locale è proponibile, così come si entra in confusione se lo si pensa solo “globalmente”. Si finisce asfissiate tra le fantasie reciproche della geoingegneria su scala planetaria e del neo-primitivismo post-civile. Per non rimanere intrappolate nel fascino di un tutto antropocenico (sempre illusorio), bisogna necessariamente tagliare il problema creando aperture per la possibilità di azione collettiva e di impegno strategico.
Per fare questo, è necessario riprendere in mano la comprensione di cosa sia il capitalismo, oggi. Non siamo solo di fronte a reti globali e connessioni, ma anche a una serie di livelli di costrizione, di layer gerarchici che pongono vincoli. Non tanto nei termini di predeterminare l’azione sociale, quanto nell’indirizzarla probabilisticamente. Il punto, dunque, non sta nel concentrarci sul cambiare qualche connessione locale o qualche rete transnazionale, ma nel modificare i livelli di costrizione, nel capire come incidere e rovesciare i layer gerarchici. In questo senso tematizzare l’autonomia come un livello locale è semplicemente un problema mal posto. Lo slogan spesso caro al movimento no-global del “pensare globale e agire locale” è oggi (o forse è sempre stato) decisamente fuorviante. Il nocciolo dell’autonomia come dispositivo di disgregazione del capitale, non di creazione di illusorie isole felici o di comunità, va pensato come l’orizzonte da perseguire.
Negli ultimi trent’anni le pratiche di autonomia sono troppo spesso, ci pare, state “importate” da contesti geograficamente lontani quasi come fossero merci. Mentre le pratiche politiche, le lotte, i mondi, necessitano di traduzione, di “tradimento”, se non le si vuole appunto mercificare. I copia-incolla le fanno diventare (pur senza volerlo), brand. È in parte successo sia con lo zapatismo che con il Rojava (cerchiamo di fare in modo che non succeda con la Palestina!!). La comunità autonoma zapatista, dove “comunità” significa 500 anni di lotta contro il colonialismo, viene importata come community di amici/che, e laddove in Chiapas autonomia è nobile concetto di difesa e autogoverno, diviene qui comunità immaginaria. Mentre l’unica comunità possibile, nell’Italia del 2024, è quella dell’Heimat nazionale. Lasciamola a Meloni, please. Passateci la provocazione. Ancora, le forme confederali del Rojava importate in modo spiccio nei contesti metropolitani del nord del mondo diventano pratiche decontestualizzate. Così come abbiamo visto diventare l’orizzontalità un’astrazione, un assoluto, una ideologia che si nutre di falsi miti.
L’orizzontalismo è per lo più oggi un orientalismo progressista basato sull’invenzione che da qualche parte nel mondo esisterebbero pratiche “pure”, “autentiche” – e che intende copiarle. Così come dietro il mito del consenso unanime si nascondono qui per lo più pratiche autoritarie nascoste che si nutrono del privilegio di classe di chi può permettersi di passare ore e ore a sfinirsi in discussioni (spesso per lo più su dettagli secondari). Assumere uno sguardo decoloniale delle lotte non ci pare significhi ricadere nel senso di colpa dell’uomo bianco o nell’imitazione new age, ma comporti costruire ponti, traduzioni, sperimentazioni. Eliminando la fantasia che da qualche parte ci sia il modello da seguire.
… Contro l’ideologia orizzontalista, contro la forma gruppettara, contro gli intellettualismi…
Il titolo di un libro uscito qualche anno fa indica uno spunto interessante su come riprendere in mano lo strumento di cui più siamo state espropriate dal capitale negli ultimi cinquant’anni di contro-rivoluzione neoliberista (oggi, fortunatamente, morente): l’organizzazione. Il titolo, dicevamo: “Né orizzontale né verticale: una teoria dell’organizzazione politica” (Rodrigo Nunes, Verso, 2021). Troppo spesso, infatti, abitiamo ancora dicotomie non funzionali. O il partito verticale, o il movimento orizzontale. O l’alto o il basso. O il locale o il globale. Siamo invece convinte che uno sguardo ecologico sui processi di contro-potere possibile sia una chiave proficua da sperimentare. Come tenere insieme una costellazione di contesti di movimenti differenti (di cui in apertura di questo documento abbiamo provato a rendere sinteticamente conto per quanto ha riguardato ultimamente Bologna) in un’ecologia eterogenea ma in grado di sviluppare orientamento strategico comune di rottura?
Se non si vuole ricadere nei miti animisti di una sorta di magica ed empatica concatenazione o ricadere nella boria ideologica del gruppetto politico che si pensa detentore della strategia da dettare; se non si vuole ricadere nell’intellettualismo delle ricette elaborate senza sporcarsi le mani nelle lotte (un buon vecchio diceva, molto saggiamente, che “chi non fa inchiesta non ha diritto di parola”, ma ce ne si scorda spesso) o nel (pur rispettabile) anarchismo che si auto-limita alla testimonianza e che spesso sfoga questo limite con una involontaria pulsione stalinista orientata sempre alla ricerca del “nemico interno”… Se si vuole insomma cercare nuove rotte, bisogna probabilmente provare a ripensare l’organizzazione collettiva come processo e desiderio, e come strumento effettivo di trasformazione. In parole forse eccessive, come teniamo insieme, come articoliamo i due livelli (micro e macro), come ci muoviamo dalle (fondamentali) particolarità dei movimenti (femminista, decoloniale, ecologista, etc.) a un piano di scontro verso un potere (il capitalismo e lo Stato) che si regge su un insieme di relazioni di potere? Come possiamo ripensare oggi il tema del “Due”?
L’immaginazione è bella, anche utile, e non costa nulla. Organizzarsi invece costa molto, ma ciò che ripaga questo costo è il rendere l’immaginazione qualcosa che esiste nel mondo. E non solo nelle nostre teste. Organizzarci per realizzare un sogno comune, organizzaci contro il presente. Organizzarci in ecosistemi imparando ad ascoltare e a comprendere l’importanza di differenti leve politiche, l’orizzontalità algoritmica e partecipativa e l’incisività delle organizzazioni militanti, le forme culturali e le disseminazioni di pratiche, etc. Lasciamo ai primi 5 Stelle l’“uno vale uno” e riscopriamo la potenza della diversità quando si fa “comune”. Ossia, riattiviamo il tema del potere, inteso come capacità collettiva di trasformazione e come ontologia materialista del divenire, non dell’essere.
Una seconda dicotomia che ci pare vada superata è quella tra “costituente” e “destituente”, tra azione politica positiva e negativa, tra la “proposta” e “l’opposizione”, come secche alternative. Abbiamo bisogno di recuperare una potenza di contro-progetto. Di nuovo, ci pare possa tornare utile ri-attraversare una visione di autonomia in grado di far giocare assieme la capacità distruttiva dell’ordine costituito con la capacità creativa del costruire mondi. L’azione politica deve sia dividere (i soggetti dalle funzioni, compiti e posizioni loro oggi imposte) che affermare (i soggetti in quanto tali, costruiti politicamente attraverso la rottura).
… Spunti/prospettive
Per chiudere, torniamo a Bologna. Alla Bologna che cambia come un campo di conflitto da necessariamente intrecciare con la congiuntura planetaria attuale. Alle domande su come poter costruire orientamenti comuni per l’ecosistema di lotte e movimenti emersi negli ultimi venti mesi e sul come costruire infrastrutture per le lotte. A scanso di equivoci, è bene esplicitarlo di nuovo. Un ecosistema di lotte non indica un insieme pacifico che si tratta semplicemente di assemblare al meglio. Quanto un ambiente conflittuale che non deve rinunciare alle diversità. Ma un “luogo” che potrebbe essere abitato in modo differente da come spesso accade, non chiamando al frontismo o a fantomatiche “unità”, ma non agendo al contempo per iper-settarismo e minoritarismo di vocazione quanto ambendo a tracciare nuovi orizzonti.
In questo senso la domanda politica su come poter sviluppare nuove piattaforme politiche ci pare importante. Dove con “piattaforma” intendiamo dei dispositivi politici capaci di intrecciare l’esistente domanda di conflitto sociale con delle ipotesi organizzative credibili e di durata, che siano in grado di articolare una politica su più scale.
Da un lato, un’ipotesi di intervento produttiva per il prossimo anno ci pare quella di lanciare in modo esteso un processo di inchiesta e intervento sul tema del “lavoro”, sulla molteplicità di forme emergenti di sfruttamento che rendono possibile il divenire-turistica di Bologna nelle sue varie declinazioni. Lì può nascondersi un grande potenziale di sabotaggio e di riscatto. Dall’altro lato, ci pare imprescindibile tentare di aggredire la congiuntura di guerra che viviamo. A differenza delle impasse senza uscita emerse nel 2022-2023, con il genocidio in corso in Palestina, con la sua violenza assoluta, si “rompe il continuum temporale del dominio, non solo a Gaza, ma a livello mondiale, nel senso che colpisce profondamente le coscienze e le soggettività. […] L’azione della resistenza palestinese sembra aver risvegliato, anche se ancora in maniera embrionale, le possibilità di un nuovo internazionalismo non più fondato sulla classe operaia, ma più globale” (Maurizio Lazzarato, Guerra civile mondiale?, Derive Approdi, 2024, pp. 166-167). E in tutto ciò, ci sembra che il tema della “comunicazione” sia un terreno sul quale da troppi anni ormai i movimenti sono in violenta ritirata, e anche su questo c’è bisogno di provare a rilanciare in avanti.
Come costruire delle complesse macchine politiche in grado di rilanciare nuovi percorsi di soggettivazione in queste direzioni e determinare nuovi rapporti di forza? Nella guerra civile planetaria che sta montando abbiamo urgenza di porci queste domande e di ripensare cosa possa essere oggi l’agire partigiano, consapevoli che le sue determinanti non sono più quelle unicamente telluriche per come espressesi nella prima metà del Novecento. Al contempo, lo scarto del confronto tra movimenti e potere costituito si misura oggi nel salto dai regimi di crisi (2008-2022) ai regimi di guerra. Uno iato che impone di accelerare il come organizzare nella società percorsi di diserzione ai regimi di guerra, e ci sembra ci siano almeno tre compiti nella fase: inventare nuove forme di egemonia culturale contro la guerra e i suoi regimi; articolare i nostri percorsi territoriali dentro lo schema più ampio di una fase bellica; farsi trovare pronte al sabotaggio delle future escalation belliche e saperle rovesciare per innestare delle contro-escalation di conflitto sociale.
Chiudiamo qui queste annotazioni, un breve bilancio e qualche possibile ipotesi politica per i prossimi mesi pensate a voce alta come strumenti di discussione collettiva.
«Sdegno e tenacia, scienza e ribellione, rapido impulso, meditato consiglio, fredda pazienza, perseveranza infinita, intelligenza del particolare e intelligenza del tutto: solo ammaestrati dalla realtà potremo cambiare la realtà».
Bologna, luglio 2024