Questo testo si propone di tirare le prime fila di un’inchiesta che dura da alcuni mesi ed è tuttora in corso, svolta insieme alle donne che animano (e hanno animato) la lotta per la casa dal 2013 al 2024, nella città di Bologna. Stavamo lavorando per farlo uscire a inizio settembre, ma abbiamo pensato potesse essere utile pubblicarlo prima come strumento che mettiamo a disposizione anche a partire da una serie di eventi occorsi nelle ultime settimane e su cui proviamo qui a prendere parola in modo più ampio.
Un caso di stupro nell’attuale occupazione di via Carracci è stato strumentalizzato da stampa e destre cittadine, e la voce della donna non è esistita se non attraverso la pubblicazione sui media della sua denuncia ai carabinieri, senza la sua volontà. In questo contesto, si sono alternate anche altre prese di parola, alcune più a caldo e condivisibili nei contenuti, altre totalmente a freddo e di vigliacca strumentalizzazione politica. Talvolta le lenti dell’ideologia rendono ciechi, e conducono a emettere sentenze per rafforzare il proprio ego per non doversi confrontare con la complessità del reale.
Basterebbe leggere gli inviti pubblici alla costruzione di confronto e riflessione collettiva usciti da PLAT nelle ultime settimane per capire che nessun ha mai negato che ci sia stato uno stupro nell’occupazione abitativa di via Carracci, come invece falsamente sostengono alcune prese di parola su questi fatti – che hanno volutamente fatto finta che queste comunicazioni politiche, pubbliche e collettive, non esistessero. Hanno preferito (talvolta in buona fede, talaltra no) basarsi su un singolo servizio giornalistico con dichiarazioni individuali, non condivise né condivisibili, non provenienti direttamente dal collettivo, invece che sulle condivisioni tra compagne e sulle discussioni collettive che hanno coinvolto le soggettività che abitano Carracci. Proprio nel rispetto e nella cura di queste discussioni collettive (processuali e continue, decisamente non esauribili nel tempo) e di queste soggettività, facciamo uscire ora queste riflessioni. Quella sbattuta sulle pagine di giornale e non solo, è una storia su cui non ci sembra corretto né utile descrivere pubblicamente i dettagli per rispetto delle persone coinvolte, per evitare di fare il gioco di chi “parla per” senza ascoltare, senza conoscere, senza condividere uno spazio di vita, senza assumere uno sguardo complesso (transfemminista, di classe, decoloniale) sul reale e sulle lotte. Questa vicenda ci pare racconti di come la fondamentale politicizzazione della violenza di genere fatichi molte volte ad uscire da quella che è sostanzialmente la logica dei tribunali. Un’occupazione abitativa non è uno spazio safe. E crediamo che la logica stessa degli spazi safe sia una logica rischiosa. Tutti gli spazi sono spazi di conflitto, in cui la violenza di genere può essere tuttavia contrastata, discussa, in modi differenti.
Non abbiamo purtroppo ricette da offrire. Abbiamo dei percorsi complessi, certamente non esenti da problemi e contraddizioni come per tutte le lotte reali, coi quali proviamo a incidere anche sulla linea di oppressione di genere. Sono sufficienti per pensare che rendano le nostre lotte immuni dalla violenza di genere? Purtroppo no, come questa vicenda dimostra. Quello che ci pare possiamo fare è tentare di costruire spazi di possibilità trasformative attraverso i percorsi quotidiani che si costruiscono e i modi in cui si tenta di agire.
La scelta che abbiamo fatto in queste settimane è stata quella di non rincorrere il circolo mediatico per non finirne triturate, ma di proporre un percorso pubblico fin dalla settimana successiva all’esplosione mediatica della vicenda di stupro per condividere e costruire forme e percorsi che non dipendessero dal clamore ma che potessero costruire e rafforzare soggetti in lotta e strumenti collettivi. È stato giusto sottrarsi nell’immediato alla canea mediatica e puntare su un altro terreno di gioco? Forse sì, forse no. Vediamo i limiti di questa scelta che può essersi prestata a interpretazioni di vario tipo. Al contempo, chiunque abbia mai attraversato una lotta sociale ha presente la complessità e i livelli sui quali ci si muove, dal potere mediatico a quello delle altre controparti, dalla dimensione militante a quella dei soggetti in lotta, dalle relazioni con altre realtà e percorsi di movimento a quelle con gli intorni sociali delle lotte, etc. etc. Una presa di parola unica in grado di essere efficace su tutti questi piani ci è sembrata impossibile. Abbiamo deciso di dare priorità alla soggettività in lotta, consapevoli che questa scelta avrebbe avuto altre problematicità. D’altro canto, su tutto il percorso di cui stiamo parlando, non possiamo elaborare “lezioni”, abbiamo anzi misurato in primis anche una serie di nostri limiti (alcuni soggettivi, altri intrinseci a un tipo di lotta come quella sull’abitare), che può essere utile socializzare. Di fronte a contesti e situazioni sociali che intrecciano oppressioni e contraddizioni di varia natura, e rispetto alle quali è evidente che la singola soggettività militante (che ovviamente non è in sé “pura” o separata dalla società) non può riuscire in tempi brevi a proporre immediati processi trasformativi, cosa bisogna fare? Di fronte a un caso come uno stupro che si inserisce nella molteplicità di livelli di oppressione ci sui stiamo parlando, sappiamo da tempo che raccontarsi la bugia che la pratica di lotta (sia essa un’occupazione, uno sciopero, un percorso assembleare, o altro) sia in grado da sola e di per sé di estraniarsi dalla società e agire, sia come minimo infantile. Allora sbarazzarsi del problema allontanandolo da sé e fingendo che non esista? Cercare mediazioni su altri livelli? Nessuna di queste tre risposte ci soddisfa. Così come non ci soddisfa dire che siccome le lotte sociali espongono a contraddizioni e complessità, e non sono nella loro singolarità la soluzione catartica, allora è meglio ritirarci nelle nostre piccole bolle tra simili.
Sono tutte problematicità che viviamo e che pensiamo emergano anche dall’inchiesta che segue. Che ci pongono di fronte a nostri limiti che pensiamo possano tuttavia essere limiti che si vivono anche in tante altre situazioni e che può essere utile socializzare. C’è a chi piace vivere nelle piccole certezze di microcosmi in bianco e nero, noi abbiamo invece scelto di muoverci nel mondo e amiamo i colori. C’è chi adora la nicchia da comfort zone con la vista lineare delle brughiere pianeggianti, noi preferiamo immergerci nelle foreste sconosciute del reale e prenderci i conseguenti rischi. Parliamone! Magari, se possibile, nell’ottica di potenziare un ecosistema antipatriarcale e anticapitalista che lotta tutti i giorni e non con altri fini.
INTRODUZIONE
Questo testo si propone di tirare le prime fila di una traccia di inchiesta, tuttora in corso, condotta insieme alle donne* che animano (e hanno animato) la lotta per la casa dal 2013 al 2024, nella città di Bologna. L’idea è quella di provare a identificare le ragioni, i bisogni, la spinta, i desideri e le problematicità che hanno portato queste persone a intraprendere un percorso di riappropriazione abitativa e come questa scelta abbia determinato cambiamenti in loro, nella loro forma-famiglia e nella loro percezione di genere; oltre che nell’eventuale innesco di trasformazioni e processi di autoaffermazione, autodeterminazione, emancipazione e rifiuto degli schemi patriarcali predefiniti (familiari, di violenza, di ruolo, di identità) sia su un piano soggettivo sia su quello collettivo e di collettività. Ci si prova, inoltre, a chiedere come le trasformazioni urbane, quelle lavorative, quelle globali (economiche, politiche, di guerra), o i diversi cicli di mobilitazioni sociali (in special modo quelle transfemministe) possano essere state, in qualche modo, elementi determinanti di questi cambiamenti nella soggettività e nella composizione femminile e femminilizzata contemporanea.
Nel testo di fa riferimento a due ondate distinte di lotta per la casa: una dal 2013 al 2016, che ha visto come promotore delle occupazioni il collettivo Social Log – la logistica delle lotte, nato con l’intento di unire sotto lo stesso ombrello le attivazioni dei lavoratori della logistica con quelle per il diritto all’abitare, in una prospettiva rivendicativa ampia sull’accesso a reddito, salario e welfare; e una iniziata nel 2023, tuttora in corso, organizzata dal collettivo PLAT – Piattaforma di intervento sociale, che cerca di affiancare presenza nelle periferie a forme di attivazione sociale come l’intervento di mutuo aiuto sui territori alluvionati o, per l’appunto, sul disagio abitativo e sulle rivendicazioni dei diritti di persone migranti. Nel triennio 2013-2016 furono occupati tre palazzi (il condominio sociale De Maria, il condominio sociale Galliera e l’Ex-Telecom, che da sola ospitava più di 300 persone tra adulti e bambin3); mentre nella primavera del 2023 venne occupato il palazzo di via Raimondi, con 5 nuclei familiari residenti all’interno ma molti di più alle spalle, già attivati. Lo stabile, però, era inserito in un piano comunale per l’edilizia popolare e si prevedeva l’avvio di lavori di ristrutturazione, con fondi del PNRR, per settembre di quell’anno: non volendo essere di ostacolo all’implemento di soluzioni abitative popolari, ma in assenza di soluzioni o trattative concrete con le istituzioni, l3 occupanti, con quella che definirono “Strategia della lumaca”, decisero di lasciare il proprio guscio per uno nuovo, occupando un palazzo di via di Corticella. A distanza di un mese dal “trasferimento”, venne occupata da decine di altre famiglie accorse agli sportelli d’ascolto e aiuto di PLAT un’altra struttura Acer, abbandonata da anni, facente parte del piano di alienazione dell’ente e composta da tre palazzi, in via de’ Carracci, dove ad oggi vivono più di 110 persone. Il condominio sociale di via di Corticella 115 fu sgomberato a dicembre 2023 contemporaneamente (stesso giorno e stessa ora) allo studentato occupato da Glitchousing project, in zona universitaria, dove risiedevano decine di giovani in emergenza abitativa. Tutto questo avvenne durante la dichiarata emergenza freddo. Oggi, sullo stabile di via de’ Carracci si sta lavorando per imporre la legittimità di forme di autorecupero e autogestione con la campagna “Carracci Casa Comune”.
Questo giugno una nota testata giornalistica cittadina di destra pubblica la notizia di uno stupro consumato all’interno dello stabile occupato. La storia di questa donna e della sua famiglia viene trattata con la stessa sensibilità e lo stesso tatto di un annuncio pubblicitario. Perché, in fondo, quello che effettivamente interessava al giornale non era fare luce su un fatto orribile e straziante mostrando vicinanza e solidarietà alla donna stuprata, ma screditare la legittimità dell’occupazione e delle lotte che da lì nascono per chiedere lo sgombero, il tutto accompagnato da giustificazioni razziste, giudizi morali e perbenisti sullo stile di vita altrui senza interessarsi della complessità delle vite precarie. Quello che però sappiamo bene, a partire dalle persone occupanti, è che le mura di uno spazio occupato, liberato e sociale non sono impermeabili alla complessità della realtà. Non si occupano le case per sfuggire alla società, ma lo si fa per creare spazi di possibilità. La possibilità di un abitare accessibile, di una vita degna. La possibilità di non essere da sole quando, inevitabilmente, la violenza patriarcale verrà a bussare alla nostra porta: spesso da dentro casa. La possibilità di non essere giudicate e criminalizzate per le nostre scelte di vita, perché un’altra certezza è che queste non hanno nessun ruolo nella violenza che ci viene fatta. Chi quello spazio lo ha sempre abitato di questo stupro era già a conoscenza e ha provato a costruirsi gli strumenti per elaborarlo insieme, e per identificare, nominare e agire la violenza di genere che quotidianamente vive dentro e fuori casa. Una vicenda che si inserisce in un quadro in cui non è esistita purtroppo solo la violenza di genere, ma un’altra serie di livelli complessità che hanno coinvolto e investito i due bambini della coppia, l’allontanamento dall’occupazione, forme di marginalizzazione sociale, di precarietà estrema. Lavorare su questa complessità assumendola tutta insieme non significa pensare che gli stupri non si verificheranno mai più (irrealistico è pensare, arrogantemente, di poter costruire isole felici e prive di contraddizioni), quanto cercare modi per potersi riscattare, reagire, aggredire e innescare una trasformazione. Insieme, in un processo continuo e collettivo. Questi strumenti si sono concretizzati in laboratori di discussione, lavoro di inchiesta e creazione di una rete solidale femminile, basata su momenti di socialità tra donne allo scopo di creare e rafforzare la fiducia reciproca. Perché quello che ci serve per cambiare le cose non sono solo le amich3, ma le sorell3 e le compagn3 di lotta. Qualcuna che ci faccia sentire tranquille ad affidargli noi stesse. Siamo consapevoli che quello di cui ci dotiamo non è sufficiente e che si inserisce in un percorso la cui fine non solo non vediamo, ma non vogliamo vedere, perché il giorno in cui ci accontenteremo, avremo perso
L’INCHIESTA
Quest’anno ci siamo trovate nuovamente a dover rispondere all’emergenza abitativa sul nostro territorio. Dopo l’ondata che caratterizzò gli anni dal 2013 al 2016 che videro l’occupazione di tre palazzi da parte di Social Log, conclusasi con l’assegnazione di case di transizione a tutte le famiglie occupanti, l’emergenza sicuramente non si risolse ma rimase latente, o meglio, non organizzata. Quelle che, in quegli anni, furono protagoniste di questa forma di riappropriazione furono persone sotto la soglia della povertà; spesso senza nessun reddito o con un solo salario decisamente sotto il minimo di legge (e di dignità) in famiglia. La maggior parte di questi lavoratori veniva dal mondo della logistica, dove in quegli anni le lotte per l’accesso ad un salario dignitoso e a condizioni di lavoro umane, si diedero in modo estremamente duro e determinato, incendiando (anche non solo metaforicamente) i picchetti fuori dai magazzini.
Il maschile utilizzato nella definizione “lavoratori” non è generico universale, ma situato: i nuclei familiari che in quel periodo si avvicinarono agli sportelli di lotta per la casa vedevano l’impiego lavorativo salariato quasi esclusivamente nell’uomo se non l’assenza totale di reddito, mentre la maggior parte delle donne si occupavano del lavoro domestico, riproduttivo e di cura. Molte di queste famiglie erano migranti e la maggior parte provenivano dal Maghreb o dall’Africa settentrionale.
Queste donne, moltissime intorno ai 30 anni e alcune delle quali da parecchi anni in Italia, parlavano poco la lingua locale, mentre i loro compagni e mariti ne avevano una padronanza decisamente migliore. Questa differenza era dovuta al diverso tempo trascorso fuori casa, lontano dalla famiglia e all’interno di contesti sociali culturalmente e linguisticamente misti. La necessità di interazione col mondo esterno e col tessuto urbano era decisamente più marcata negli uomini che col lavoro si trovavano più frequentemente in situazioni in cui parlare l’italiano diventava fondamentale per sopravvivere. Le donne, invece, avevano le competenze di base solo per i (pochi) contatti con le istituzioni scolastiche per i figli; anche nei negozi e negli alimentari era sufficiente la loro lingua madre, rivolgendosi principalmente ad esercizi commerciali legati alla loro provenienza. In quel periodo ci siamo chiest3, tra le altre cose, se la tendenza degli uomini ad occuparsi delle questioni scolastiche dei propri figli o della burocrazia non fosse tanto una reale presa in carico del lavoro riproduttivo ma una necessità dovuta proprio ai maggiori strumenti comunicativi a loro disposizione, che gradualmente si trasforma in un ulteriore aumento del prestigio sociale dell’uomo, allargando il divario con la moglie che si ritrova ancora più relegata in casa e le viene tolto anche l’unico spazio decisionale in cui ha peso e potere, ovvero quello dell’educazione dei figli. Negli anni che ci hanno separato da questo nuovo momento di riappropriazione abitativa la città ha subito numerosi mutamenti, così come anche il contesto economico e politico mondiale in cui si inserisce. L’impoverimento generale, l’aumento del costo della vita, il virare del mercato immobiliare verso un sistema di affitti brevi e la creazione di una città più a misura di turista che di abitante, il mancato adattamento dei salari ai costi dei beni e delle materie prime, ha portato all’aumento esponenziale di quella che la sociologia legge come la figura dei working poor: le famiglie che ora si trovano in crisi abitativa e si sono attivate nella lotta per l’abitare non sono più sotto la soglia della povertà, ma anzi spesso hanno due stipendi di cui almeno uno discreto. Queste entrate però non sono più sufficienti a coprire affitto, bollette, materiale scolastico e beni di prima necessità. Ci si trova quindi a dover scegliere tra mangiare, comprare i vestiti ai propri figli o pagare l’affitto (“Non voglio le cose gratis”). Aumentano quindi le donne che lavorano, così come quelle con le basi dell’italiano ma anche i nuclei monogenitoriali di donne single o col marito che vive in un altro paese. Le madri con cui ci troviamo ad occupare fanno parte di una fascia d’età a cui ci rivolgiamo definendola “giovanile” ma che non frequenta i luoghi di aggregazione e (decisamente) non conduce la vita delle loro coetanee che comunemente consideriamo “tipica”. Una domanda cruciale da porci, quindi, è come lavorare sul costruire legami tra differenti soggettività di classe, e di come la linea della razza approfondisce le distanze.
Quello che riscontriamo, però, intervistando queste giovani donne occupanti, sono tratti caratteristici anche della soggettività che anima, ad esempio, le lotte universitarie: la consapevolezza di genere, la determinazione, il desiderio di una vita non solo dignitosa ma anche bella, l’attenzione alla salute mentale e all’auto-affermazione. Risulta molto marcata la propria consapevolezza di genere, l’identificazione delle forme di violenza patriarcale e la capacità di definire una molestia (tanto da riuscire, a volte, a prendere i figli e lasciare il marito); così come si impone con forza il bisogno di autodeterminarsi e smarcarsi dal ridurre la propria identità a quella di moglie e di madre. Centrale per questa affermazione di sé, oltre alla conoscenza della lingua, è avere un reddito proprio: per questo molte di loro vedono nel lavoro salariato non solo una necessità economica ma anche un mezzo di emancipazione. La contraddizione intrinseca in questa soluzione (sostituire l’oppressione del marito con quella del padrone, trovare la propria liberazione in un’altra forma di costrizione), però, non è del tutto evidente, anche se le basi per questo si fanno già strada nella loro percezione della quotidianità: risulta infatti chiaro a molte di loro che tutto il carico di cura e di riproduzione che le aspetta a casa ha la conformazione di un vero e proprio lavoro che, quindi, per loro diventa doppio, dentro e fuori casa, con un raddoppio consequenziale anche della fatica, un dimezzamento del tempo libero e di quello per riposare e prendersi cura di sé, ma con la sostanziale differenza che il secondo non è retribuito (“Lavoro insieme a lui, faccio la stessa cosa che fa lui, vengo a casa e devo cucinare, lavare i piatti, fare tutto”, “Almeno al lavoro ti pagano”). Inoltre quasi tutte queste donne fanno lavori femminilizzati o riproduttivi stipendiati, come assistenza alla persona, pulizie, specialmente nelle strutture alberghiere o babysitting; spesso rinunciando a lavori per cui hanno studiato o preso qualifiche a causa di un mancato riconoscimento del titolo o perché non abbastanza padrone della lingua.
Nelle donne più grandi, intorno alla trentina, si vedono ancora molti dei meccanismi di genere tipici dell’impostazione tradizionale della famiglia ma queste persone mostrano, come quelle più giovani, insoddisfazione; si sentono strette nel loro ruolo di genere: un ruolo che si trovano cucito addosso, in cui si sentono intrappolate da aspettative e consuetudini sociali e culturali. Riconoscono anche loro il peso del doppio carico di lavoro, e riescono a definire la riproduzione e la cura dei loro figli, della casa e della famiglia come tale. Non sono soddisfatte da come il loro genere e la loro socializzazione (forse più quella dei loro mariti) influenzano la loro vita e ne delineano i confini; nonostante questo però, a differenza delle più giovani, fanno più fatica a politicizzare questo sentimento e quindi a smarcarsene o a lavorare per una fuoriuscita da questi schemi che sentono come imposti, ma naturali (“[da noi] il maschio si siede e basta e mangia”). Le più grandi ancora invece, tra i 40 e i 70 anni, non riconoscono come lavoro il carico di cura, sostenendo che cucinare, pulire la casa, fare compagnia agli anziani fossero solo modi di ricambiare la gentilezza delle famiglie che le ospitavano a casa loro e non un lavoro il cui compenso si concretizzava in vitto e alloggio. Sentono il peso della famiglia, sono consapevoli della disparità di sacrificio che viene messo in campo da loro e dai loro partner o familiari nella riproduzione, ma assumono questo incarico come un sacrificio naturale e normale mostrando un comportamento molto più simile a quello delle occupanti degli scorsi anni, loro coetanee. Infatti le occupanti dell’Ex Telecom, di via de Maria e di Galliera parlavano della loro scelta di andare ad occupare come di una cosa dolorosa ma necessaria per permettere ai figli e alla famiglia di sopravvivere e avere una vita dignitosa, a differenza delle nuove giovani occupanti che scelgono una soluzione illegale per dare, ovviamente, un tetto ai propri figli ma non la considerano la ragione unica: chi si merita una vita e una soluzione abitativa degna non è solo la loro famiglia, ma anche loro stesse. Queste donne occupano per autodeterminarsi, per prendersi quello che credono gli spetti e non lo fanno esclusivamente come sacrificio per la loro prole (alla domanda “Se pensi ad una resistente, che donna della storia ti viene in mente? la risposta è stata: “Io sono una guerriera. Ho occupato questa casa, no?”). Cosa è cambiato quindi? Cosa ha generato modifiche nella consapevolezza del ruolo di genere in queste donne? Che peso ha avuto il movimento transfemminista che ha travolto il mondo in questi ultimi otto anni in questa trasformazione?
Un’altra grossa differenza tra le donne protagoniste di queste due ondate di lotta per la casa è il modo in cui il vivere comune ha inciso e incide nelle loro vite e nella loro quotidianità. Le occupanti dell’Ex Telecom hanno trovato nel vivere comune un importante appoggio e un aiuto per maturare quella consapevolezza di genere che non avevano maturato individualmente o spontaneamente. Molte di loro parlano della bellezza dei corridoi con le porte sempre aperte e della libertà di poter bussare per chiedere aiuto come di un grosso strumento per la ridistribuzione del lavoro di cura, per smettere di subire la violenza di genere nelle sue svariate sfaccettature (anche quelle più “lievi”) e per costruire strumenti soggettivi e comuni per l’autodeterminazione. La maggior parte delle famiglie di quell’occupazione parlavano arabo, ma per poter interagire con le poche donne di origine non arabofona è stato necessario imparare ad esprimersi anche in una lingua comune, identificata nell’italiano: questa necessità, unita alla conformazione architettonica (sia dell’ExTelecom che degli altri palazzi occupati) con ampi spazi comuni, alle numerose iniziative e laboratori (per esempio il corso di cucina meticcia) hanno creato l’occasione e lo spazio di possibilità per la costruzione di una vasta rete di interazione, aiuto e relazione tra le donne che hanno potuto quindi lavorare sull’allargamento dei confini del loro concetto di famiglia, mettendo in condivisione la gestione e la crescita dei figli e della casa recuperando e ridistribuendo tra loro tempo libero e liberato da utilizzare per se stesse, i propri desideri e per la propria affermazione.
Carracci Casa Comune non ha spazi che si prestino alla costruzione spontanea di queste relazioni e molte delle occupanti lamentano una difficoltà nell’interazione e nel costruire rapporti e dialogo con le altre donne e con le altre famiglie, a volte al limite con cattivi rapporti di vicinato; col tempo si è riuscite a sopperire alla mancanza di questi spazi con delle alternative: l’assemblea di condominio, il doposcuola, la scuola di italiano e il laboratorio di autoaffermazione Una Stanza Tutta per Noi. L’assemblea di condominio nasce principalmente come strumento organizzativo per la gestione del palazzo e per la discussione degli eventuali problemi di convivenza che si creano; automaticamente però diventa anche spazio di confronto e discussione, di proposta di iniziative e per rimarcare pilastri fondamentali per la costruzione di un abitare e di relazioni altre. Quest’ultimo meccanismo spesso si dà come collaterale, utilizzando gli impegni, il vivere comune e le responsabilità condivise nello spazio condominiale come scusa per tradurre in pratica teorie sulla ridistribuzione del lavoro di cura: alcuni esempi sono “l’obbligatorietà” della partecipazione all’assemblea di condominio di tutt3 l3 abitanti, comprese le donne che così non possono essere relegate (o relegarsi da sole) all’interno delle mura domestiche creando la classica divisione tra invisibilizzazione domestica femminilizzata e prestigio sociale maschilizzato; oppure l’allestimento di uno spazio di cura per l3 bimb3 durante iniziative per cui è particolarmente importante la presenza delle donne in cui si cerca di spingere proprio gli uomini a prendersi cura di quegli spazi, dei propri figli come di quelli altrui e sviluppare la consapevolezza che anche le loro mogli hanno bisogno di tempo, di svago e di momenti di autodeterminazione.
Il doposcuola nasce, invece, proprio dalla necessità posta da alcune donne di recuperare qualche ora libera per lavorare, cercare lavoro, occuparsi del lavoro domestico o anche solo per riposare o agire uno dei propri desideri. Nel caso del doposcuola non è sui padri che ricade il lavoro di cura, ma su persone adulte esterne alle famiglie che vanno a costruire una rete ancora più ampia di supporto e aiuto che lavora alla ridistribuzione larga e sociale della riproduzione: questa rete, però, cerca immediatamente una rivendicazione verso l’esterno, evitando quindi un avvitamento su se stessa e cercando di evitare la costruzione di una bolla basata sul mutuo-aiuto e l’assistenza volontaristica, ma chiedendo il riconoscimento di queste necessità e la creazione di risposte e soluzioni accessibili da parte delle istituzioni.
Molte delle mamme che lasciavano i bambini al doposcuola si sono trovate ad esprimere la necessità di imparare meglio l’italiano, strumento che serve loro per trovare più facilmente lavoro, per comunicare con la scuola, col medic3, nella vita di tutti i giorni, aiutare i figli coi compiti, ma più in generale per sentirsi indipendenti e autonome (“non posso dipendere sempre da mio marito”). Ci si è organizzate, quindi, per co-costruire un laboratorio che permettesse di sviluppare le basi della lingua, soprattutto quelle orali; questo spazio, nel tempo, si è trasformato anche in un momento di scambio e riflessione in cui non solo si fanno circolare più lingue oltre l’italiano, ma anche in cui potersi applicare ad esprimere concetti e sentimenti complessi in lingue che non sono la propria, analizzando e traducendo parole chiave identificate durante iniziative pubbliche come, per esempio, un dibattito a partire dal libro Donne, Razza e Classe di Angela Devis. Quel momento diventa quindi un luogo di costruzione di strumenti linguistici e concettuali, per la soggettivazione, l’autodeterminazione e la riappropriazione del proprio tempo, così come queste donne si erano già riappropriate della loro casa. Alcune di loro iniziano, tra l’altro, ad accarezzare la decisione di tornare a scuola e diplomarsi, identificando nella cultura un attrezzo fondamentale per affermarsi nel mondo esterno alle mura domestiche.
A differenza delle occupanti della scorsa ondata di lotta per la casa, per cui il processo di soggettivazione è venuto come conseguenza della costruzione di rapporti solidali, in questa occupazione la costruzione della propria consapevolezza di genere e dei modi per resistere ad alcune forme della violenza patriarcale si costituisce come un processo più consapevole, che si ritaglia degli spazi specifici di elaborazione, si dà degli obiettivi e delle proiezioni di lotta. Questa trasformazione che ha travolto le nuove giovani donne che scelgono di diventare madri è, però, accompagnata da un cambiamento, più lento ma comunque incidente, nel ruolo che i padri decidono di ricoprire all’interno della famiglia: se ancora prendersi carico della casa è raro e spesa e cucina vengono considerate mansioni sporadiche di cui occuparsi, solo nel caso in cui la donna non può farlo; si assumono con estrema attenzione e dedizione la cura dei bambini, sia affettiva che materiale. La forma famiglia sta subendo, nella maggior parte dei casi, un cambiamento che va di pari passo con la crescente ricerca e rivendicazione di autonomia dal proprio ruolo di genere, delle donne. Nonostante questo, però, la percezione è ancora quella di un’anomalia rispetto a come solitamente vanno le cose e si tende a descrivere il proprio partner come particolare o speciale (“sono fortunata, mio marito è bravo in casa”), considerando la partecipazione dell’uomo al lavoro riproduttivo come un aiuto personale e non un’assunzione di responsabilità che arriva con millenni di ritardo.
Rimane comunque nell’aria la domanda che ci siamo post3 anni fa, su quanto la partecipazione attiva degli uomini alla riproduzione familiare sia un desiderio e una trasformazione della forma famiglia, e quanto invece sia una sottrazione dell’agibilità femminile, specialmente per quanto riguarda la burocrazia e l’interazione con soggetti terzi in posizione di “prestigio”, come insegnanti, medic3 o uffici amministrativi. Sicuramente quello che si nota, quando anche questo aspetto è tutto a carico della donna, è un comportamento lavativo dell’uomo che si aspetta di essere accudito e riverito dalla sua partner (“Devo sistemargli io anche i documenti per il suo permesso di soggiorno”).
Sicuramente c’è ancora tanto da conoscere di queste donne, che ogni giorno in cui Carracci Casa Comune vive, mutano e diventano più forti, così come anche i/le militanti mutano di conseguenza. Le singolarità delle loro vite, i loro problemi e le loro difficoltà, le spingono a cercare risposte fuori da sé, a trovare negli spazi collettivi momenti di crescita, di aiuto e di affermazione dei propri desideri. Ricercano questi momenti anche fuori dai laboratori già organizzati e in forme sempre più autonome e indipendenti. Le domande che ci poniamo sono ancora molte e nascono spontanee lungo questo testo e in ogni cambiamento a cui va incontro la collettività occupante: com’è cambiata la forma-famiglia? Come è cambiata l’identità di genere sia femminile che maschile in questi ultimi anni di attivazione transfemminista? Quanto i movimenti sociali hanno influenzato questi cambiamenti? Come si trasforma l’emancipazione in autodeterminazione? Come ci costruiamo gli strumenti per liberarci oltre gli scenari contraddittori che ci vengono proposti dalla società? Come le forme del lavoro cambiano? E che trasformazioni determinano nelle vite delle donne? In che modo le linee di razza, di classe e di generazione vanno a determinare le strade possibili di ognuna di noi? Come si identifica un obiettivo concreto e comune che ci permetta di impattare sul reale ed uscire dal ricircolo dell’autocoscienza, necessaria ma non sufficiente per la trasformazione? Ci proponiamo di continuare ad allargare l’inchiesta oltre i confini del palazzo, continuando a camminare domandando (individualmente e collettivamente) con le abitanti, ma intervistando anche altre donne che vivono differenti disagi abitativi, così come le giovani donne che hanno scelto (e hanno avuto la possibilità di scegliere) strade differenti da quella della famiglia e quell3 che hanno deciso di autodeterminarsi nel proprio genere e nella propria identità, in una società che l3 invisibilizza e l3 reprime.
RIFLESSIONI E RILANCI
Oggi, dopo mesi dalle interviste, decine di momenti di condivisione, laboratori e iniziative pubbliche, le relazioni tra le donne che vivono in questo stabile si sono rafforzate. Da che erano estranee che condividevano un disagio abitativo, ora sono una rete di supporto e sostegno in formazione con la quale (e attraverso la quale) riescono a chiedere ed ottenere aiuto, a non sentirsi sole, a non avere paura. È anche a partire da questo percorso che di fronte all’esposizione mediatica di un caso di stupro si è deciso di dare priorità alla soggettività in lotta e di proporre un percorso e un appuntamento pubblico, svoltosi il 18 luglio 2024 in Carracci Casa Comune. Un momento di condivisione e discussione tra chi ha adottato e trasformato quello spazio e chi lo ha vissuto principalmente dall’esterno, costruendo così un passaggio che ci auguriamo possa dare forza nel lungo periodo al di là delle istantanee dei media e delle bolle social.
Attraverso tre spazi laboratoriali (le forme della violenza, i luoghi delle contraddizioni, No è No – agire le contraddizioni) le coraggiose “donne guerriere” (così molte di loro si autodefiniscono e percepiscono) di Carracci sono partite dalle proprie storie per identificare, nominare, e ribaltare le violenze che vivono e hanno vissuto sulla propria pelle. Partendo da domande di indagine (come si presenta la violenza nella mia vita? Che ambivalenze vivo nei luoghi che attraverso? Quando e perché ho detto No?), ogni tavolo ha lavorato sul ribaltare l’interrogativo in affermazione. Ad ogni forma di violenza vissuta, si è associata una pratica di riscatto; ad ogni luogo di contraddizione si è assegnato uno strumento utile per attraversarlo; ad ogni No detto, si è riflettuto su che Sì si desidera dire. Lo strumento considerato più utile, ricorso con più forza e frequenza tra i momenti di discussione, è stato la costruzione di una rete di supporto e sostegno, l’identificazione di compagnə di viaggio e di lotta, l’importanza di trovare aiuto e fiducia in altre persone ma anche avere gli strumenti per poter prendere parola, alzare la voce, esprimere disappunto, come conoscere la lingua per usarla e rendersi più indipendenti.
Parlare di violenza di genere, e in particolare di stupro, non è stato facile né lineare. Ciò che si è reso estremamente difficile è stato elaborare che una violenza di genere è, come quella di classe e di razza, basata sull’abuso di potere, sulla sovradeterminazione, la sottrazione di agibilità, la vessazione e la precarizzazione di altri individui; e che le condizioni o le scelte di vita di chi la vive non producono una responsabilità in questo abuso subito. Essere credute, ricevere ascolto e darne a propria volta è condizione fondamentale per ribaltare e contrastare la violenza di genere, per sentirsi libere di attraversare a testa alta i luoghi in cui questa si verifica, per scegliere senza paura se dire Sì o No. Come abbiamo potuto vedere nelle storie di queste persone, le lotte femministe e trasfemministe, come quelle per la liberazione di popoli e territori, sono state un importante motore di innesco per processualità trasformative individuali e collettive: la spinta necessaria a vincere l’attrito di una società capitalistica, razzista e patriarcale, per un moto di nuove costruzioni, riscatto e riappropriazione.
Vediamo il qui e ora come uno dei passi in avanti, necessari ma certamente non sufficienti, di questo moto che, solo grazie a chi sceglierà di non smettere di lottare, speriamo non subisca mai il rallentamento della forza contraria e repressiva dell’attrito patriarcale. Ci auspichiamo che questo processo in divenire resti tale, approfondendo anche uno sguardo decoloniale basato sulla lotta collettiva di differenti soggetti sociali, possa muovere venti che ingrossino le vele di lotte che, contemporaneamente, devono essere transfemministe, anticoloniali, antirazziste, anticapitaliste e per la libertà e l’autodeterminazione dei popoli. Non è una sfida semplice, anzi forse è volere l’impossibile. E non è certo una singola lotta in quanto tale a potersi misurare sull’altezza di questi temi. Con queste pagine speriamo ad ogni modo di esser riuscite a restituire una serie di limiti e di potenzialità, di difficoltà, di domande, che si pongono all’interno di una lotta sociale e che proponiamo come possibili strumenti per ulteriori elaborazioni.