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I Quaderni del Laboratorio Crash! Numero Zero

Con questo Numero Zero apriamo un esperimento di riflessione che vuole essere un contributo a un dibattito politico collettivo. Ci proponiamo, da qui ai prossimi mesi, di produrre alcuni Quaderni che abbiano come baricentro il tema “dell’organizzazione”. Un focus certamente non nuovo, ma che ci pare importante in un periodo di particolare difficoltà per il rilancio di lotte e istanze politiche autonome e radicali.
Cosa significhi oggi “organizzazione” è tutt’altro che scontato. Anche perché, purtroppo, non ci pare che al momento esistano modelli (teorici o di esperienze concrete) che possano essere presi come punto di riferimento per avviare una discussione. Quello che si può, in prima battuta, accennare, è che il cantiere di ricerca che ci interessa aprire si muove nella direzione di interrogarci su cosa possa essere oggi una “organizzazione autonoma” della lotta di classe contemporanea. Laddove, evidentemente, anche lo stesso concetto di classe non può essere dato per scontato. Proveremo a tornarci più avanti. Basti per ora dire che chiaramente “classe” è per noi un terreno storicamente mutevole, segnato da molteplici linee di soggettivazione e di oppressione, che non guarda a un passato polveroso ma è aperto sull’avvenire.
Con questi Quaderni ci proponiamo dunque un’indagine che dovrà necessariamente guardare alle forme assunte in passato da esperimenti rivoluzionari, misurarsi su una storia del presente, e ambire a cogliere possibili tendenze. Lo faremo soprattutto a partire dal proporre delle interviste. Questo numero Zero propone dunque un dialogo con Emilio Quadrelli, svoltosi il 24 luglio 2024 all’Archivio di via Avesella a Bologna. È stato proprio Emilio a darci lo spunto per pensare a queste pubblicazioni, a partire dalla valutazione condivisa sull’attuale confusione e disorientamento che attanaglia compagne e compagni. Purtroppo Emilio è venuto a mancare il 13 agosto 2024. Non possiamo che dedicare a lui questi Quaderni, alla sua passione di militante autonomo e comunista.
Sono ormai svariati anni che (giustamente) si annuncia la fine di esperienze politiche passate e un anno zero dei movimenti antagonisti da cui ripartire. Ma ben poco si è mosso nel frattempo. E se indubbiamente saranno necessari degli “eventi” che prescindono dalle singole volontà militanti per poter sbloccare la situazione, al contempo è il come ci si prepara ad essi ciò che conta. In questo senso interrogarsi sul tema dell’organizzazione è cruciale, laddove evidentemente non si parla della ricerca di una scorciatoia nell’autonomia del politico ma di strumenti da costruire per potenziare “la nostra parte”.
L’organizzazione non è una ricetta data (anche se purtroppo nel vuoto di percorsi di autonomia e antagonismo sociale negli ultimi anni si sono rafforzate a livello giovanile le “risposte semplici e identitarie” a questo problema). Le ricette semplici (ci si organizza come partito con il suo organigramma sempre valido, come sindacato, come gruppo/collettivo/centro sociale con la sua area di movimento, o nelle tante varianti che fingono di sviare il problema ricorrendo all’ideologia orizzontalista) ci interessano ben poco, anche se attraverso le questioni lasciate storicamente sul piatto da quelle forme bisogna comunque passare. I livelli di organizzazione si danno in base alla fase politica, sui livelli esistenti di soggettività e autonomia sociale, sulle trame di lotta.
Oggi ci pare ci sia un tendenziale “vuoto” politico-culturale, anche a partire dal lascito piuttosto debole che ereditiamo dall’ultimo quindicennio. Vanno in qualche modo individuate delle ipotesi su come poter innescare delle circolarità virtuose tra militanze, lotte, percorsi di soggettivazione, formazione politica – sapendo che solo dentro dinamiche organizzative è possibile garantire durata oltre le maree dei movimenti, far depositare contro-capacità ed esperienze, accumulare risorse, esprimere possibilità di auto-difesa e resistenza alla repressione, nonché elaborare “egemonia” (ossia cogliere i comportamenti di massa e politicizzarli, non un discorso esterno che li organizzi) e competenza tattica (gerarchie di intervento, organizzazione della politica, terreni dell’inimicizia e dell’amicizia politica). E vanno in qualche modo rilanciate delle domande sul senso e sulle distinzioni tra l’idea di “avanguardia”, quello di “prima linea del conflitto sociale” o altre forme soggettive, su cosa significhi oggi “radicamento territoriale” nell’era digitale, su quali siano gli strumenti politico-comunicativi più efficaci nel panorama frammentato e ostile dell’Internet 2.0, su quali i luoghi e i tempi dell’organizzazione.
Ovviamente questi Quaderni non potranno affrontare tutti questi nodi, ma speriamo possano essere utili per discutere di nuove sfide collettive che ci facciano uscire dalle risacche attuali per pensare nuovi percorsi di organizzazione di massa, nuove infrastrutture politiche ed ecosistemi di movimento.


Intervista a Emilio Quadrelli

[La versione integrale si può leggere cliccando: https://hubautbologna.org/2024/08/19/intervista-a-emilio-quadrelli/]

Oggi fare politica autonoma in Occidente significa riconoscere l’eterogeneità delle lotte e tentare una strada composizionista, identificando un soggetto plurale, oppure gerarchizzare i soggetti in lotta riconoscendo solo in alcuni profili e nelle loro rivendicazioni la composizione politica, su cui è possibile recuperare una funzione-Lenin? E con questo, un’ipotesi rivoluzionaria alle nostre latitudini si muove solamente contro l’Occidente e il suo privilegio, quindi valorizzando le dinamiche destituenti dei nuovi barbari, oppure è possibile operare un dentro e contro, dove il dentro riconosca la tensione riappropriativa interna alle soggettività del discorso occidentale?

Rispondo sicuramente dentro e contro, nel senso che io non sono per nulla attratto da un Terzomondismo di ritorno, penso che il problema sia il dentro e contro all’interno dei nostri mondi, anche perché questo dentro e contro esiste e semmai c’è il problema della sua valorizzazione. Il rischio è quello di dire: va bene, l’Occidente non ci interessa, ci interessa soltanto ciò che preme ai suoi bordi. A me non convince, anche perché quello che preme ai bordi dell’Occidente non mi rassicura assolutamente.
Penso che esista una gerarchia di soggettività intorno alla quale costruire l’organizzazione. Io credo che vada ribadito, fatte le tare del caso, il discorso sulla centralità operaia. In che senso? Nel senso che noi assistiamo da tempo al proliferare di tutta una serie di lotte, micro-lotte, dentro i comparti produttivi, la logistica in primis, ma non solo. Queste lotte non trovano alcuna corrispondenza, non trovano nessuna risposta. Gli anni Sessanta non è che sono stati anni in cui ci sono state grandissime esplosioni operaie, ma in tutti gli anni Sessanta abbiamo assistito a una microconflittualità operaia che soltanto perché un ceto politico intellettuale rivoluzionario – che è stato quello che ha dato vita alle varie riviste che hanno costellato l’operaismo – ha svolto la funzione di militanti, ricercatori, che hanno assunto la centralità operaia come elemento cruciale nel conflitto di classe.
Ma cosa ha fatto questo ceto politico? Oltre a sviluppare tutta una serie di analisi, ha avuto il grosso merito di mettere in collegamento le lotte operaie, perché non è che negli anni Sessanta gli operai sapessero quello che succedeva nel mondo. C’era una volontà da parte di un ceto politico di riunificare queste lotte operaie, di metterle in collegamento e soprattutto di farle discutere tra di loro. La parte “infame”, cioè la voce degli uomini senza fama che dentro tutte queste esperienze trovavano la parola.
Rimettere in circolo un discorso in cui alcuni soggetti sociali assumono il ruolo di centralità, non vuol dire piegarsi, non vuol dire fare questo discorso vagamente un po’ buffo, tipo M-L, “viva la classe operaia”, vuol dire assumere però le lotte operaie come parte costitutiva e costituente di un possibile soggetto politico.
Il dentro e il contro lo vedo in questa logica: noi abbiamo assistito in questi anni anche a grandissimi movimenti di massa importanti; quindi, non è che non abbiamo assistito a delle mobilitazioni, non è che è tutto fermo, non è che non si muove niente, anzi abbiamo assistito a mobilitazioni che sono andate anche al di là delle più rosee prospettive. Ma nel momento in cui si è andato a tirare le reti a me sembra che sia rimasto ben poco, perché il problema alla fine sembrava essere più la manifestazione, l’evento, la comunicazione, conquistarsi le prime pagine dei giornali, oppure la socializzazione dei vari social, piuttosto che la costruzione di un’organizzazione politica. Un qualcosa in grado, a partire comunque da quelle manifestazioni di piazza che sicuramente erano importanti, che però il giorno dopo fosse in grado di essere presenti nei territori, nelle scuole, nei luoghi di lavoro, che fosse in grado di essere presente dentro la classe e di sviluppare gli istituti proletari del contropotere.

Nel 1963 Carl Schmitt pubblica La teoria del partigiano, un testo orientato a inquadrare, semplificando, nelle rivoluzioni comuniste, nella loro soggettività irregolare, un potente fattore di smantellamento dell’ordine politico moderno. Il partigiano Otto-Novecentesco, nel suo essere politicamente autonomo, ha per Schmitt un carattere prettamente tellurico, legato a una matrice densamente territoriale. Oggi, nell’affermarsi di una congiuntura di guerra che rimette sul piatto una serie di nodi politici che in molti pensavamo estinti, che profili politici può assumere la dimensione di una politica partigiana e, nello specifico, in che modo possiamo ripensare il tema della sua territorialità?

Mi sembra che la figura del partigiano stia tornando a essere in qualche modo centrale, perché è centrale nel momento in cui ritorna a essere centrale il discorso sulla popolazione. Non si è riflettuto molto su questo. Nel conflitto russo-ucraino stiamo già parlando di centinaia di migliaia di proletari morti, questo vuole dire che di fronte avremo uno scenario a medio raggio dove il coinvolgimento di forze sempre più ampie di popolazione sarà costretto a essere impiegato su questi fronti.
Si stanno sommando i modelli delle guerre stellari con modelli dove torna a essere centrale la popolazione, modelli che ricordano assai da vicino gli scenari delle guerre mondiali del Novecento. La quantità in proiettili di artiglieria che vengono consumati fa pensare al fatto che siamo di fronte anche a una forma bellica non distante da alcune forme proprie delle trincee della Prima Guerra Mondiale e quindi con un ruolo sempre più importante nella popolazione.
In più vorrei aggiungere che questo discorso che metteva tra parentesi e che considerava il partigiano una figura ormai superata, era anche un po’ frutto di una sorta di intellettualismo e snobismo proprio della borghesia, nel senso che la popolazione vive dentro i territori, la popolazione non è che si sposti perché ha una casa a Roma, una a New York e un’altra a Nairobi. La popolazione si sposta al massimo perché ha una casa a Roma e forse una casa lasciata dai nonni nella campagna romana. Quindi l’elemento tellurico per la popolazione non è mai venuto meno, non può mai venire meno perché la sua dimensione territoriale è implicita con la sua esistenza. La popolazione è territorio, non è qualcos’altro.
Noi possiamo pensare ai non luoghi degli aeroporti, ai centri commerciali uguali in tutto il mondo, alle gentrificazioni, possiamo pensare a tutto questo, però sostanzialmente questo è vero per un’élite di popolazione che vive spostandosi continuamente da un continente all’altro. Ma la grande maggioranza della popolazione vive ancorata in un territorio e quando si sposta, come nel caso dei flussi migratori, non è che lo fa prendendo un aereo, ma affrontando viaggi dove spesso rischia la morte, andando alla ricerca di un territorio in cui stare, quindi questa dimensione tellurica è implicita nell’esistenza delle masse. Non a caso è stata espunta questa configurazione partigiana nel momento in cui si sono considerate le masse inessenziali allo svolgimento degli scenari geostrategici e geopolitici.
Le masse sono inessenziali perché noi combattiamo delle guerre dove abbiamo eserciti professionisti ridotti all’osso, in sostanza un capitale variabile di modeste proporzioni, ma di altissimo contenuto tecnologico, e un capitale costante abnorme che ci consente in qualche modo di combattere. Ma in alcune parti del mondo questo gioco non funziona più, ecco che si è costretti a ritornare all’idea che comincino ad esserci degli sforzi per riportare l’esercito nella scuola, che ci siano i tentativi dopo anni in cui la separazione netta tra esercito e popolazione era un dato di fatto, c’erano gli eserciti e poi c’era la popolazione.
Gli eserciti negli anni passati avevano svolto un ruolo abbastanza anomalo per un esercito nazionale, un esercito di popolazione, un ruolo di polizia, pensiamo agli eserciti utilizzati in Val Susa, ad esempio, in funzione di polizia, che erano proprio in qualche modo possibili perché quegli eserciti non avevano più alcun legame con la popolazione. Oggi assistiamo invece a tentativi sparsi un po’ per tutta l’Europa, di riavvicinare la popolazione agli eserciti, di riportare gli eserciti nelle scuole, in qualche modo di sollecitare gli arruolamenti eccetera. Questo perché gli scenari ci stanno dicendo che la funzione delle masse torna a essere determinante negli scenari bellici attuali.

Quella necessità che in politica chiamiamo organizzazione consiste sempre – se libera da logiche autoreferenziali – in una ricercata “capacità di orientarci”: verso qualcosa, contro qualcos’altro, oggi.  Non esiste concretezza organizzativa nella stasi, non esiste organizzazione senza ambizione, senza movimento nelle complessità del reale. Organizzarsi, quindi, crediamo debba essere inteso come una “immaginazione produttiva” sempre determinata dall’esterno, mai definitiva: organizzarsi nella mutevolezza della fase, organizzarsi in base alle trasformazioni delle nostre parti e controparti. Dentro e fuori, gruppo politico e pluralità sociale: in maniera ineludibile emerge un tema con cui fare i conti, fuggendo da qualsiasi visione dicotomica. Da qui, forse, la potenza alchemica dell’organizzazione autonoma, rispetto a cui vogliamo chiederti: come interpreti questo complesso rapporto tra spontaneità e organizzazione oggi, fondamentale per chiunque si ponga l’ambizione di una prassi incisiva sulla realtà?

La risposta semplicissima che posso dare è una risposta classica, che se vuoi viene da Lenin, viene da Toni Negri. La triade marxiana è spontaneità, coscienza, spontaneità, cioè strategia, tattica, strategia. La strategia alla classe, la tattica al partito, queste sono le risposte che negli anni si sono date e credo che siano risposte tuttora valide. Questa metodologia è una metodologia tuttora valida, cioè non si dà l’organizzazione per decreto divino, non si dà l’organizzazione perché qualcuno ha letto meglio e più di altri i testi sacri, ma si dà l’organizzazione perché si è in grado di essere la testa del movimento. Questo mi sembra il succo della questione ed è in qualche modo la barra che ha sempre guidato nel bene, nel male, con errori, il discorso sull’autonomia.
Quello che diventa un problema è capire, se questo è il metodo, come adottare questa metodologia oggi. Io credo che non sia facile, ma non perché qualcuno è più furbo di un altro o perché qualcuno è più indietro di un altro, ma proprio perché la pluralità di soggetti con i quali ci troviamo ad avere a che fare è ampia e spesso sfuggente. Quindi questo rapporto spontaneità-organizzazione a volte ti sembra di averlo colto, poi un attimo dopo ti giri e non trovi più la spontaneità perché questa chissà dove è finita. Io credo che forse una via praticabile sia anche quella di andare a reperire i soggetti intorno ai quali l’organizzazione si può costruire e una volta individuati questi soggetti comunque rimane decisivo il discorso dell’inchiesta perché senza inchiesta noi possiamo fare tutti i seminari che vogliamo, possiamo produrre anche tutti i livelli di teoria alta che vogliamo, ma se noi siamo slegati da quello che è la classe, cioè dalle masse, se noi non sappiamo cosa pullula dentro la classe, noi potremmo anche fare dei bei libri, fare delle belle riunioni con anche dei meriti, ma sicuramente non costruiremo l’organizzazione.
Forse in un momento come questo sarebbe più saggio fare un passo indietro, cioè non buttarsi in avanti, non buttarsi alla ricerca dell’organizzazione perduta, ma perimetrarsi in quanto corpo politico e cominciare a lavorare in chiave di inchiesta su alcuni ambiti territoriali, lavorativi e intorno a questi provare a vedere cosa si tira fuori. Però noi dobbiamo sapere cosa bolle in pentola, dobbiamo sapere cosa c’è dentro la classe. Se non sappiamo questo io credo che non riusciremo a costruire l’organizzazione, è inutile girarci intorno.

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