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Per aprire una nuova fase

Per aprire una nuova fase.
Appunti sparsi per un dibattito collettivo


Le problème ce n’est pas la chute, c’est l’atterrissage


La Haine (L’odio), diretto da Mathieu Kassovitz, 1995.


Riquadri
So… What? Mentre il clima impazzisce, le minacce atomiche si intensificano, le destre radicali
siedono sui più alti posti di potere, la violenza padronale si acuisce, la reazione patriarcale e razzista
si approfondisce, noi cosa facciamo? Attendiamo che arrivi l’Evento a rovesciare il tavolo, e nel frattempo cerchiamo di sopravvivere nelle nostre esistenze individuali? Riproduciamo dei corpi politici
come se nulla fosse? Ci chiudiamo a studiare e fare seminari? Preghiamo per l’Apocalisse? Creiamo
dei micro-mondi per provare ad attraversare il disastro? Facciamo gli umarelles della militanza che
guardano e giudicano da fuori dando indicazioni su come andrebbero fatti i lavori? Ci raccontiamo
che in fondo non sta succedendo niente?
Forse possiamo fare tutte queste cose assieme. Ma ci piacerebbe provare a prendere in considerazione anche qualche altra possibilità. Che proviamo a discutere in questo documento, che rappresenta
un tentativo di sintesi del nostro dibattito interno, in maniera necessariamente sintetica e semplificata.
Lo facciamo a partire da alcuni elementi di contesto, di framework – anche questi evidentemente solo
abbozzati e tipizzati.
In primo luogo, ci sono alcuni macro-fattori che spesso vengono semplicemente enunciati come
dati di fatto ma, ci pare, non sufficientemente analizzati per il loro peso sulla quotidianità delle vite.
Ci si perdoni, ma li elenchiamo (non in ordine gerarchico ma casuale). Sono tutti all’insegna della
crisi: una crisi economico/finanziaria esplosa 15 anni fa e mai conclusa, che si sommava alla crisi del
progetto di egemonia globale statunitense emerso alla fine della Guerra fredda e che già da tempo ci
parla di un mondo “multipolare” (o quantomeno non più unipolare) in una transizione senza meta;
una crisi ecologica planetaria; il susseguirsi di crisi pandemiche (di cui “l’Occidente” ha vissuto con
impatto solo quella da Covid-19, ma che altri continenti vivono da un paio di decenni); la trasformazione radicale dei modi di produzione, riproduzione e consumo, differentemente etichettata come
“digitalizzazione”, “rivoluzione industriale 4.0”, o altro; l’esplosione della guerra in Ucraina che allude a scenari atomici e da terza guerra mondiale, un salto di qualità all’interno della “guerra globale
permanente” che ci accompagna da decenni. Questi alcuni dei fattori “enormi” e più evidenti degli
ultimi anni, che emergono da una serie di correnti di lungo periodo del capitalismo globale, rendendo
manifesta una più generale crisi della riproduzione sociale che ultimamente è stata differentemente
nominata come sindemia, permacrisi e altro.
Ora, di fronte a questa montagna soverchiante, le domande sopra menzionate assumono un certo
significato, ce ne si rende conto. Ma di nuovo, vogliamo “arrenderci” al constatare l’eccezionalità del
periodo storico che stiamo attraversando? Se la risposta è no, ci pare al contempo che negli ultimi
anni, forse comprensibilmente, sia emersa una tendenza a cercare risposte con un rassicurante “guardare indietro”. Ora, bene citare il Machiavelli del “ritorno ai principii”, ma se non vogliamo essere
delle macchiette di noi stessi, quella famosa massima andrebbe presa con un po’ più di complessità.
Vediamo davvero come un problema chi di fronte alla radicale crisi di prospettiva, progetto, organizzazione, visione e militanza di un’opzione di trasformazione radicale dell’esistente, si risponda andando alla ricerca del passato come soluzione. La risposta sarebbe ripensare il Socialismo, riformare
il Partito tradizionale, sviluppare una nuova “visione di società/ideologia”, ripensare la Classe intesa
come se nulla fosse cambiato negli ultimi cento anni, riprendere in mano la simbologia “rassicurante”
(dipende dai punti di vista ovviamente…) di falci e martello e bandiere rosse da moltiplicare (tre a
testa!) corteo dopo corteo, e tutto il concistoro… Ma anche, pur magari con parole, colori e riferimenti
differenti, il ripetersi dell’eguale sperimentato negli ultimi anni – pur patinato di nuovo. Non ci sottraiamo nemmeno noi dal problema, sia chiaro, ma… Accidenti che tristezza, compagn…
Ci vorrebbe proprio una rivoluzione, certo. Una rivoluzione di sistema, ma anche una rivoluzione
“interna”. Però, se vogliamo provare ad essere serie, il concetto di “rivoluzione” va preso fino in
fondo. Col suo portato e peso di violenza, sangue, morte, distruzione. Quindi non va pronunciato
con leggerezza. Si tratta allora forse, con umiltà, metodo, tenacia e pazienza, di collocare il discorso
e le prospettive in modo concreto e situato. Avendo un sogno davanti, un grande fine da inseguire
e costruire, ma anche un qui ed ora da giocare. Per aprire le possibilità di una rivoluzione a venire.
Quel che al momento c’è, ci pare, è il possibile inizio di uno “scongelamento”, una certa “aria di
movimento”, come non la si respirava da tempo. Anche a “noi” il compito di darle possibilità, farle
spazio, senza nasconderci che, pur nella drammaticità della cosa, il nuovo governo italiano su questo
apre spazi di conflitto inediti e nuove possibilità di lotta di massa – dopo il decennio dei governi tecnici e dell’anomalia 5 Stelle. Il punto dirimente ci pare essere che non siamo in una fase che necessita di
essere “radicalizzata”. È la fase stessa ad essere radicale e ad imporre a noi di sintonizzarci ad essa.
Tenendo accesa nella lunga notte la nostra fiaccola, provando ad aprire nuove strade e possibilità.

Militanz!
Un nodo, o almeno uno dei nodi, che ci pare dunque meriti una riflessione in profondità tra compagni e compagne, è quello di quale linea di condotta si può adottare in questo periodo. Dove già la
parola “compagnx” va ovviamente articolata. Per noi questa si definisce, emerge, all’interno di alcune
linee di inimicizia, di conflitto, si forgia tra chi guarda a un orizzonte in cui sia possibile estinguere lo
Stato, abbattere il patriarcato, distruggere il rapporto sociale di capitale, abolire la proprietà privata,
definire nuovi metabolismi tra foresta e metropoli, smantellare il carcere, annullare il lavoro salariato
e lo sfruttamento, oltrepassare la società divisa in classi, meticciare il sociale oltre la razza.. In questo
vortice, una seconda articolazione cruciale è quello che lega la parola compagnx a quella di militanza. Di una militanza che si costruisce sulle coordinate appena indicate. Una militanza che possiamo
dunque definire come antagonista.
E su questo punto, la crisi è conclamata e radicale. Anzi, non è più nemmeno una crisi, siamo oltre.
Ma in questi anni, in proposito, si è già detto tanto. Talvolta a sproposito, tal altra in modo tendenzioso e caricaturale, alcune volte in modo sciocco e settario, altre in modo puntuale ed efficace. Ma, ci
sembra, si è sempre rimaste su un livello destruens che, per quanto forse necessario, certo non basta
ad aprire nuovi orizzonti. Se non quello di ritirarsi a fare i maître à penser o i presunti influencer sui
social sempre in modo, in fondo, individuale, egocentrico, e senza reale prospettiva politica.
Ancora: che la stessa categoria di “movimento” con la quale per decenni molte compagni si sono
pensati nel loro agire politico sia oggi più un significante vuoto che un pieno di lotta, siamo anche
d’accordo. Ma, di nuovo… So, what? Se non abbiamo quantomeno l’ambizione di determinare un
momento costruens, una nuova fase, che ce ne facciamo di tutti questi discorsi? I contemplatori/ici
di un passato mitologizzato che non c’è mai stato? O preferiamo rinchiuderci a bere nelle osterie
dell’avvenire?
Questo ovviamente non significa non assumere con radicalità l’insufficienza, se non peggio, di quel
che c’è, di quel che siamo, la radicalità di un vacuum di organizzazione all’altezza delle possibilità
(enormi!) del momento storico. Ma se, di nuovo, non vogliamo rassegnarci a questo, si tratta forse
di aprire discussioni, dibattiti, iniziative, scontri, che assunto tutto quanto detto sinora (se può essere
vagamente condiviso), provino a iniziare a ragionare al di là di una cappa senza uscita. E per farlo è
necessario discutere apertamente e in modo collettivo.
Non si tratta di inneggiare a un nuovismo fine a sé stesso. Ma di assumere, anche con un certo
entusiasmo, se vogliamo, la fine di un’epoca. E di iniziare a costruire bussole, strumenti, progetti e
passioni, per una nuova che si apre. Al di là del nominalismo, ci sembra che un po’ tutti i progetti
politici che hanno abitato gli anni Dieci e che hanno attraversato, più o meno male, la pandemia, possono considerarsi (ognuno a suo modo) di fronte alla necessità radicale di trasformarsi – costruendo
nuove ipotesi e percorsi. Oppure rischiamo di esser condannati alla sparizione (o, peggio, a una lenta
dissipazione di lumicini da cimitero).
Alcune sperimentazioni sono in atto, e le rispettiamo e guardiamo con curiosità. Anche noi proviamo a trasformarci. Pensiamo sia necessario mettersi in discussione, aprirsi, contaminarsi, sperimentare, meticciarsi, cercare strade nuove, avendo alle spalle e all’orizzonte la nostra grande stella rossa e
in mezzo tutto da costruire. Ci sembra, al contempo, che talvolta queste sperimentazioni, e lo diciamo
in modo davvero umile e dialogico, si basino su alcune operazioni eccessivamente “semplificate”.
Ossia, se l’obiettivo della sperimentazione è quello di costruire una nuova militanza (antagonista)
adeguata alle sfide del nostro tempo (se l’obiettivo è un altro forse sarebbe opportuno esplicitarlo, e
chiarire le vie che si intende percorrere…), ci sembra che spesso ci sia un po’ un eccesso di linearità
nel tentativo di “traduzione” di vari riferimenti. Ossia che più che “mischiare” si “importi” in modo
acritico e, alla fine, poco produttivo. Proviamo a dirlo in modo più chiaro.
Sentiamo un certo scetticismo, assolutamente aperto a smentite, alle trasposizioni lineari – che da
più parti vengono evocate – dei temi e metodi di movimenti come quello transfemminista, quello ecologista e quello della rivoluzione confederale del nord della Siria, all’interno delle nostre latitudini
nelle militanze antagoniste. Ci sembra infatti che “importare” questi (fondamentali) bagagli di teorie,
metodi ed esperienze in una prospettiva di militanza antagonista nei nostri spazi-tempi sia un’operazione spesso (purtroppo) iper-semplificata e alla fine dei conti inefficace. L’operazione di traduzione implica sempre un tradimento. Importare linearmente invece implica corrompere. Se vogliamo
prendere sul serio il tradurre per la militanza antagonista nei nostri spazio-tempi una serie di istanze,
temi, pratiche, finanche immaginari e prassi, dovremmo forse farlo con la piena consapevolezza del
tradimento, dell’eresia. Ma anche del fatto che non si parte da una tabula rasa. E che non è che ogni
scenario e contesto è uguale e si può procedere coi copia-incolla.
Non è mettendo una bandiera delle YPG nei nostri centri sociali, mettendo un pañuelo fucsia nei
nostri cortei, aggiungendo una frase sull’ecologia nei nostri comunicati, che risolviamo i problemi…
del tradimento, dell’eresia. Ma anche del fatto che non si parte da una tabula rasa. E che non è che
ogni scenario e contesto è uguale e si può procedere coi copia-incolla.


Al di là…
Quello su cui stiamo ragionando – e su cui ci piacerebbe dialogare in una risonanza tra differenti
lotte, ambienti e militanze – è come poter pensare e praticare una prospettiva di rottura e trasformazione che a partire dall’insufficienza delle varie militanze e percorsi possa provare ad aprire una nuova
fase. Muovendo necessariamente dalla consapevolezza che è nella linea sottile tra forme organizzate
e comportamenti di classe che si potranno pensare prospettive di alterità.
Qui si colloca ad esempio una sfida come quella che abbiamo provato ad accogliere della “convergenza”, che per noi ha senso se si pone l’obiettivo di mettersi a servizio per aprire spazi alla possibilità di una nuova forza sociale di esprimersi e imporsi (come abbiamo ragionato qui: https://bologna22ottobre22.indivia.net/2022/10/04/che-cose-convergenza-appello-per-tre-momenti-di-confronto/).
Se invece la convergenza è un nuovo intergruppi, una sommatoria, o un tentativo di omogeneizzare
quel che si muove, è una partita persa in partenza.
Dunque, l’abbiamo fatta anche troppo lunga, ma questi alcuni nodi sui quali stiamo ragionando e
che proponiamo a un dibattito collettivo e per futuri approfondimenti:

  • Territorialità+: come ripensiamo il battleground, gli spazi-tempi dell’agire antagonista? Il concetto-guida che ci ha a lungo accompagnato, quello di “territorio”, non ci sembra più sufficientemente
    esaustivo (qui avevamo iniziato a tracciare una prima riflessione a riguardo: https://www.infoaut.org/
    seminari/free-download-il-campo-di-battaglia-urbano-trasformazioni-e-conflitti-dentro-contro-e-oltre-la-metropoli).
    Una pista di ricerca politica potrebbe essere quella di pensare in termini di “territorialità+”, di territorialità aumentata, intendendo con questo la (persistente) necessità di radicamento dei conflitti, in
    un contesto in cui tuttavia questi si dispiegano sempre più entro logiche transnazionali, in cui i punti
    di impatto/scontro si moltiplicano e velocizzano, in cui le maglie digitali sono oggi costitutive del
    “territorio”. Fare conflitto dentro, contro e oltre la territorialità+ significa sforzare l’immaginazione
    politica, combinare molteplici livelli di realtà, ri-pensare le contro-geografie del passato. Da questo
    punto di vista, assumendo l’ormai abbondantemente esauritasi fase politica dei “centri sociali”, quello su cui stiamo ragionando è sulla possibilità di costruire degli “hub” (vedi: https://excentralebologna.it/2022/10/27/peripherique-vol-iv-il-programma/);
  • Soggettività: la serie di crisi concatenate che abbiamo accennato all’inizio di questo scritto ha
    scavato, siamo convinte spesso in modo inaspettato, nella soggettività di classe. Esperienze di massa
    come la pandemia, i processi di digitalizzazione, etc. hanno, per ipotesi, prodotto una compressione
    soggettiva che non aspetta altro che le giuste dinamiche e scintille per potersi liberare. In particolare
    per quello che riguarda la componente giovanile (ma non solo) vanno esplorate possibilità di accelerazione. Da questo punto di vista crediamo che non sia il momento di scommettere su una forma
    resistenziale. Ci pare invece che ci siano grosse possibilità nell’individuare sulla linea dell’appropriazione e dell’attacco dei terreni per l’espressione di nuove soggettività. Su questo una sperimentazione
    che stanno portando avanti a Bologna segmenti giovanili sul tema del “lusso comune” e della lotta per
    “una vita bella” sono passaggi in questa direzione.
    Al contempo, la soggettività è oggi sempre più “circolante”, elettrica, mobile. Si sposta di continuo
    di lavoro in lavoro, di piattaforma in piattaforma, di scenario in scenario, di “skill” in “skill”.
    I comportamenti di rifiuto si dispiegano in modo spesso impercettibile, ma non basta interrogarsi su
    nuove forme di inchiesta e con-ricerca. Vanno anche individuati nuovi immaginari, mobilitate nuove
    genealogie, fatti tentativi in rottura anche con le nostre consuetudini per cercare di intercettare le
    nuove correnti di soggettivazione in atto;
  • Operaietà: in che modo si sta combinando una nuova operaietà? Metropolitana, cyborg, macchinica, migrante, femminilizzata, taylorizzata, ma al contempo cooperante, che sperimenta/crea il
    digitale, che in modo ambivalente pratica le grandi dimissioni e costruisce nuovi percorsi di sindacalizzazione. Che assembla e tiene assieme forme arcaiche e high tech, rifiuto e cooptazione continua.
    Povertà e potenza.

    Su questo terreno, sulle possibilità di organizzazione sul terreno del lavoro metropolitano, si gioca
    una delle partite più difficili ma al contempo strategiche. Si tratta probabilmente, giusto come tracce
    di lavoro, di immaginare da un lato delle possibilità di assemblaggio di forme differenti (forma-sindacato e intervento territoriale, lotta sul salario e sul reddito diretto e indiretto, in modi flessibili e
    inter-operabili – è quanto, con gran difficoltà, stiamo provando a sperimentare con la costruzione
    di una Piattaforma di intervento sociale: https://www.infoaut.org/seminari/costruiamo-una-piattaforma-di-intervento-sociale-assemblea-a-bologna), e dall’altro di costruire una nuova analisi che deve
    necessariamente fare i conti con quanto successo nel “lavoro” negli ultimi vent’anni. Un solo esempio: siamo sicure che valga ancora la pena pensare nei termini della “precarietà” come categoria eminentemente politica? Non è forse questa, oramai, categoria diffusa tanto da non essere più in effettiva
    opposizione a quella di “lavoro stabile”, e dunque da ripensare politicamente?

    Sono ovviamente nodi parziali e semplificati, ma che al contempo ci pare contengano una diretta interazione con la prassi politica di una possibile nuova militanza antagonista. In tutto ciò il tema della
    guerra (e del suo impatto sulla militanza) merita un discorso a parte, ma anche su questo rimandiamo
    ad altri momenti di discussione e a futuri contributi (vedi: https://www.infoaut.org/bisogni/quale-convergenza-per-insorgere-contro-la-guerra). Ad ogni modo, la confluenza di questi vari assi di ragionamento ricade, ça va sans dire, sul nodo dell’organizzazione. Tema ineludibile, spesso enunciato più
    come evocazione che come pratica concreta. Elemento cruciale per chi si ponga con tenacia e serietà
    dentro, contro e oltre il proprio tempo. Terreno sul quale, più ancora di tutti gli altri sinora indicati,
    non abbiamo modelli di riferimento e tutto è da inventare e costruire.

    Anche qui, più a livello di suggestione che altro, proviamo a indicare un paio di elementi del nostro
    dibattito collettivo che ci piacerebbe discutere. Un primo passaggio è relativo al come ci si immagina “organizzazione” oggi. Un’idea sulla quale stiamo lavorando è quella dell’organizzazione come
    infrastruttura, come complesso di elementi che consentano a una forza sociale di potersi esprimere,
    componendo, collegando e intermediando una serie di rapporti e garantendo la durata della possibilità di circolazione di lotte e conflitti. Questa immagine dell’organizzazione ci sembra porti piuttosto
    lontano da come spesso ci si è pensate in passato… E che sia più produttiva del ricorso a una sorta
    di appropriazione del lessico dei social network oggi molto in voga per ripensare l’organizzazione.
    Lo diciamo in modo volutamente provocatorio e chiaramente semplicistico, ma… Da dove vengono
    se non dall’“ideologia californiana” tutti i termini spesso dati quasi come “naturali” nei movimenti
    attuali come “condivisione” (sharing), “consenso” (like), “orizzontalità” (user in a social network),
    inclusività (inclusion), metodo politico come astratto e universale (neutralità della rete)…? Non dovremmo forse ricercare un differente lessico politico? Ne abbiamo velocemente parlato in un recente
    comunicato
    .

    Un secondo passaggio è quello sulla “comunicazione”. Se un secolo fa si poteva pensare che bastasse un giornale per fare un partito, se l’epoca dei mass media ha stravolto la questione, se gli albori
    dell’epoca di Internet avevano rimescolato le carte… Oggi c’è un ritardo clamoroso di riflessione,
    elaborazione e sperimentazione su questo terreno da parte “dei movimenti”. Se non passiamo da qui,
    consideriamoci già perduti. Non basta, per quanto fondamentale, il contro-uso di quanto esiste (di re-
    cente soprattutto Telegram), ma bisogna andare molto oltre. Forse dovremmo pensare a una sorta di,
    lo diciamo provocatoriamente, “Bestia” antagonista della comunicazione… Purtroppo non abbiamo
    nessuna indicazione in merito, ma ci sembra necessario porre con forza il problema per futuri incontri, confronti e approfondimenti.

    Per concludere, la necessità di una rottura/transizione/ri-combinazione delle militanze ci sembra un
    irrimediabile qui e ora, all’interno di una fase decisamente straordinaria che in qualche modo impone
    un al di là possibile. Una nuova fase si sta aprendo e si può aprire anche rispetto alle possibilità soggettive della rottura, della prassi antagonista, di un orizzonte nuovo. Ci vorrà tanta dedizione, tanto
    lavoro invisibile e silenzioso, tanta rabbia e tanta agitazione, tanta costruzione e tanta distruzione,
    tanto stare nella territorialità, tanta lotta, tanta organizzazione, tanta umiltà e tanta passione, infinite
    vibranti attese e improvvisi assalti… Noi stiamo provando a sintonizzarci e ad esserci!

    Laboratorio Crash!

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