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RACCONTO DI UNA CONVIVENZA IN LOTTA – Spunti di riflessione da un doposcuola autogestito

Il radical housing project parte dall’idea di immaginare nuove forme di abitare. L’ondata di lotta per la casa che investì la nostra città tra il 2013 e il 2016 ci insegnò che avere un bisogno comune, in quel caso di un posto dove vivere, non necessariamente si esaurisce nel trovare una soluzione. Quei palazzi occupati non si limitavano ad essere case, ma divennero spazi di aggregazione e convivenza. Uno dei ricordi più condivisi da alcune ex occupanti, raccolti durante interviste fatte loro qualche anno dopo gli sgomberi, era la sensazione di non essere mai sole. C’era chi parlava di porte sempre aperte, chi di aiuto sempre a disposizione, chi di cooperazione e chi, anche, di lati negativi come la riduzione del propri desiderati spazi di solitudine.
A partire da quei luoghi cercammo di costruire reti e relazioni che ci dessero nuovi strumenti collettivi per affrontare anche la vita fuori dal palazzo. Risolvere il problema imminente della casa ci dava l’occasione per chiederci di cos’altro avevamo bisogno. Ottenuto il pane, pensammo alle rose. Che poi, dopo tutto, non erano neanche rose ma, al più, companatico. Welfare, salario, reddito, diritti, dignità.
Le reti che costruimmo in quegli anni ancora reggono. Sfilacciate, lise, con parecchi buchi. Qualcuno si è perso, qualcuno ha cercato altri lidi. Ma con molti ancora costruiamo possibilità.

Via Raimondi, nasce dal desiderio di partire già con lo sguardo oltre le mura domestiche. Cosa significa costruire un abitare altro? Cosa significa convivere, creare collettività? Quali elementi determinano l’assenza di una casa e la difficoltà ad ottenerla? Cosa significa ridistribuzione della cura? Come si porta a galla e si aggredisce la divisione di genere del lavoro domestico?
Queste sono solo alcune delle domande che ci siamo fatte e che ci hanno portate a vivere questa nuova occupazione come un cantiere in evoluzione. Un camminare domandando.

Fin dal giorno zero di via Raimondi 41, fu subito ovvio che un tozzo di pane secco non è sufficiente a sfamarci. Oltre alle famiglie dentro il palazzo, tante altre vivevano disagi legati alla mala gestione della crisi abitativa, di quella economica e di quella sociale.
Ai poveri, si aggiunge una categoria che per i criteri ISEE dello stato è ben sopra la soglia della povertà. Eppure il rincaro dei prezzi del cibo, del carburante, degli affitti, dovuti a guerra e speculazione edilizia, il razzismo e l’avidità dei palazzinari e l’omertà di istituzioni che preferiscono appaltare a privati che prendersi responsabilità, ci hanno reso impossibile vivere dignitosamente anche se ufficialmente all’interno dei canoni liberali di medio-bassa ricchezza. Siamo i famosi working poor.
In via Raimondi, attorno a chi dal giorno dopo avrebbe dormito per strada si è stretta chi ancora la casa ce l’ha ma ha bisogno di tutto il resto.

Alle domande iniziali ben presto se ne sono aggiunte molte altre.
Cosa significa per una donna, anche madre, doversi occupare dei propri figli? Come fa, questa donna, a gestirli se deve andare a lavorare? Se ha un’emergenza? Se non ha i soldi per la babysitter o il posto comunale al nido perché lavora in nero o part time?

Le risposte ai bisogni emersi furono pressoché immediate.
Tengo io i tuoi figli sta mattina che ho il turno di notte. Tu se riesci dai la cena ai miei?
La macchina se l’è tenuta il mio ex, puoi accompagnare tu mio figlio a scuola domani, insieme al tuo?
Ancora la tua cucina è inagibile, puoi venire a preparare da me.
Oggi dopo lavoro faccio un giro per gli appartamenti a sistemare tutti i vari lavandini rotti o gocciolanti, va bene?
Questa circolare scolastica non riesco a capirla, mi aiuti?
Devo andare a colloquio con quell’insegnante ma mio marito che capisce meglio la lingua deve lavorare, mi accompagni tu?
Non riesco ad aiutare mio figlio coi compiti. Tu sapresti farlo?

Forme di mutualismo e aiuto sono nate con la stessa facilità delle amicizie e i litigi tra i bambini.
A partire da alcune di queste richieste ci è sembrato utile provare a costruire un doposcuola autogestito che, per due misere e totalmente insufficienti ore settimanali, desse la possibilità alle altre di occuparsi delle proprie cose e di sé stesse e ai bambini di fare i compiti e socializzare. Ma anche che fosse un momento in cui poter parlare ed esporre i nostri problemi individuali cercando soluzioni collettive. La maggior parte di questi problemi erano legati alla gestione e all’interazione con l’istituzione scolastica e con le amministrazioni comunali. Difficoltà acuite dalle barriere linguistica, culturale, a volte digitale.
Alcune delle donne passate dal doposcuola, avevano bisogno di tempo per cercare un lavoro, per gestire meglio la casa o anche solo per sé stesse. La necessità di un proprio salario, come di imparare la lingua, serve per creare la propria autonomia e non sentirsi dipendenti dal proprio compagno. Alcune hanno raccontato come, non potendo utilizzare il loro titolo di laurea in Italia, iniziavano i classici lavori femminilizzati e razzializzati, ma soprattutto sottopagati. Nessuna di loro poteva permettersi di far riscattare il proprio titolo di studio (pratica esclusivamente economica), rimettersi a studiare o fare corsi professionalizzanti perché il costo di queste cose è troppo alto. I centri per l’impiego o le agenzie interinali non hanno dato nessun valido aiuto, contrapponendo per esempio al desiderio di una di frequentare un corso di pasticceria, una proposta di lavoro come donna delle pulizie in un hotel o addetta alla mensa nelle scuole. Totale ore settimanali, 10. Stipendio, sotto i 400 euro mensili.
Lavori part time come questi o completamente in nero, impattano anche sulla possibilità di iscrivere i figli piccoli all’asilo nido. I nidi comunali sono pochissimi, i posti comunali nei nidi privati ancora meno (3900 posti totali previsti per l’anno 2023/2024. Solo nel 2022 sono nati 2742 bambini). Per accedere ad uno di questi posti, che comunque non sono gratuiti, bisogna scalare una graduatoria. A fare punteggio ci sono molti criteri, uno dei quali è che entrambi i genitori siano impiegati a tempo pieno. Come dimostro che sono impiegata a tempo pieno se lavoro in nero? Se lavoro part time, che senso ha visto che quello che guadagno lo spendo tutto per la baby sitter che mi copre le ore in cui lavoro?
Il posto pubblico al nido costa in media 98 euro al mese, 980 euro l’anno, mentre quello privato viaggia sugli 8000 euro annui.
La baby sitter per 3 ore al giorno, per tutto il periodo scolastico costa intorno ai 5000 euro.
A cui aggiungere i trasporti, perché il nido non sempre lo trovo sotto casa, soprattutto se privato, che superano i 500 euro per tutto il periodo scolastico (per l’adulto accompagnatore, i bambini viaggiano gratuitamente ma non possono ovviamente farlo da soli).
Con la scuola dell’obbligo i costi migliorano, ma non considerevolmente. Le spese che comprendono gite, materiale e contribuzioni una tantum raggiungono facilmente gli 800 euro all’anno.
D’estate i problemi non finiscono, ma anzi peggiorano perché senza scuola bisogna trovare un posto dove lasciare i bambini per tutto il giorno. I campi estivi costano fino a 130 euro a settimana, per un totale estivo di 1040. Se si hanno i mezzi per accedere a questa informazione e si è abbastanza rapidi si riesce ad ottenere l’aiuto comunale che però copre solo le prime tre settimane. Il 37,5% dell’estate.
Questi problemi sono comuni a tutte le famiglie che non hanno vicino paracaduti sociali come i nonni. Nonni che comunque, ormai, fino a 70 anni ancora lavorano e poi sono troppo vecchi per gestire un bambino per 8 ore al giorno. Questa condizione è tipica tanto delle famiglie migranti quanto di quelle italiane, che però trovano davanti a sé meno barriere riuscendo così ad accedere più facilmente a sussidi e agevolazioni.
Insomma, un cane che si morde la coda. Lavoriamo per pagare i servizi di cui abbiamo bisogno per avere il tempo di andare a lavorare.

Abbiamo aperto, così, il doposcuola autogestito, con la consapevolezza dei suoi limiti e con l’immediato desiderio di superarlo. Come poi abbiamo visto anche nel volontarismo nato dall’alluvione, forme di sostegno e mutuo aiuto sono fondamentali ma insufficienti. Amiamo il nostro doposcuola e ci investiamo tempo, energia e cura. Ma non vogliamo sostituirci a quello che pensiamo ci spetti. Abbiamo spalato il fango con amore ed energia, ma anche con rabbia e determinazione. I responsabili del nostro disagio vanno nominati ed indicati. Come abbiamo rispedito il fango al mittente il 17 giugno, pretendiamo di portare il conto di quanto ci costa una famiglia a chi deve pagarlo.
In un paese in cui non possiamo scegliere di interrompere una gravidanza, senza un conclamato motivo (e anche in quel caso ci viene fatto ostruzionismo), in cui veniamo bombardate con discorsi cattolici e populisti sull’importanza di riprodurre e aumentare il nostro popolo, possibilmente salvaguardandolo da miscugli di razza, non curanti della sovrappopolazione mondiale, della crisi climatica, della miseria in cui la vita della gente versa, non ci viene neanche dato un sostegno alla maternità che non si esaurisca in una esigua paghetta per la prima manciata di anni di nostro figlio. Per noi, infatti, lottare per l’accesso all’aborto libero, gratuito e sicuro, vuol dire anche lottare per una genitorialità degna. Per aiuti alla persona partoriente che siano economici, psicologici e sociali. Per la decriminalizzazione di chi di noi non vuole allattare o che non vuole partorire con dolore e preferisce il cesareo. Rivendicare servizi per l’infanzia che siano pensati non solo nell’ottica della salvaguardia dell’innocente bambino del futuro, ma anche dell’equilibrio psicologico ed emotivo delle madri. Siamo consapevoli che uno stato che vive un calo demografico non investirà mai nei servizi per un’infanzia che va scomparendo, ma le nostre vite non possono e non devono essere un freddo calcolo economico. Noi abbiamo bisogno di nidi, di doposcuola, di campi estivi, di trasporti, di ludoteche, di sport e arte, di corsi di italiano, tutto gratis. E ne abbiamo bisogno ora.

Abbiamo deciso immediatamente di provare ad organizzare questi bisogni in assemblee del doposcuola, che ci dessero un respiro più ampio e ci spingessero oltre il mutuo aiuto. Non possiamo sostituirci noi, col nostro lavoro gratuito, ai servizi che le istituzioni non ci danno. Non abbiamo aperto il doposcuola per sanare il nostro bisogno filantropico di sentirci utili per gli altri, ma per sopperire nell’immediato ad una mancanza che invece sul lungo periodo vogliamo venga colmata. Lo scopo è stato fin da subito anche quello di portare a galla un bisogno e con lui una contraddizione.
Ci siamo interrogate su che tipo di riproduzione sociale e domestica vogliamo. Su cosa vuol dire collettivizzazione della cura e creazione di rete sociale. Quello riproduttivo è a tutti gli effetti un lavoro e non può essere gratuito. Non può essere appaltato ad amiche, familiari o vicine di casa in cambio di riconoscenza e debiti morali. Vogliamo che sia retribuito, che lo sia bene. Per questo abbiamo deciso di avvicinarci e sostenere le lotte delle educatrici e di tutte le lavoratrici del sociale che, di nuovo relegate in una femminilizzazione del lavoro di cura e quindi nel loro presunto ruolo biologico e di genere, vengono considerate lavoratrici appaltabili a cooperative e associazioni, esattamente come i cantieri possono essere appaltati ai privati e alla loro smodata fame di cemento. Educatrici come merce a basso costo. I loro contratti, nella maggior parte dei casi, sono privi di qual di voglia diritto, paghe da fame e niente corsi di aggiornamento o sostegno psicologico. Vogliamo servizi, vogliamo luoghi dove poter lasciare i nostri figli gratuitamente anche solo qualche ora, per poter andare a lavorare, a fare la spesa, dal medico, a fare un colloquio di lavoro o ad un corso di lingua o professionalizzante, o perché no, per dormire un paio d’ore. Vogliamo che questi posti abbiano personale specializzato. Ma non vogliamo che tutto questo sia a spese proprio di questo personale. Il loro contratto e la loro paga devono essere dignitosi tanto quando la vita che vogliamo. Il benessere e la dignità non possono essere individuali.

Fino ad ora abbiamo parlato al femminile, perché i problemi e le difficoltà le abbiamo espresse principalmente noi donne. In momenti informali, nelle chiacchiere o con una specifica richiesta di aiuto, ma nelle assemblee abbiamo visto la presenza di parecchi padri insieme alle loro mogli o compagne. Ci siamo chieste perché. Molte di noi, parlando delle nostre dinamiche familiari, hanno fatto trasparire una forte presenza del marito nella gestione della scuola, dei figli, dei trasporti. Mai della casa, ma con i bambini questi uomini erano particolarmente partecipi della loro educazione sociale ed affettiva. Anni di femminismo stanno cambiando la netta separazione di genere della gestione dei figli? Gli uomini adulti di oggi, anche per problemi di precarietà, trovano più facile essere presenti in casa invece di stare sempre al lavoro? O, nei casi di chi di noi è migrante, la presenza di uno scoglio gigante come quello della lingua rende necessaria questa presenza dei padri quanto meno nella vita scolastica dei figli? Lui lavora fuori casa e impara l’italiano. noi costrette a gestire i bambini non riusciamo a trovare un lavoro, i nostri contatti fuori da casa sono minimi rendendo più lungo il processo di apprendimento della lingua. Tutta la parte amministrativa della gestione dei figli passa al padre non per una redistribuzione sulla base di genere del lavoro di cura, ma per una differenziale disponibilità di strumenti. Si tratta davvero dei primi tentativi di costruire un concetto di famiglia diverso, o si tratta di una nuova forma di sottrazione del poco effimero potere che le donne hanno entro la recinzione del loro ruolo imposto, ovvero quello della comunicazione con figure autorevoli di scuola e amministrazioni?
Quello che abbiamo però potuto osservare è che la presenza dei padri nelle assemblee non era esclusivamente come strumento di traduzione linguistica per le madri o una sottrazione del nostro spazio di agibilità, ma un reale interesse nella gestione delle famiglie, della serenità dei propri figli e nello sforzo per migliorare le proprie condizioni e quelle delle compagne.

Durante le assemblee è emersa sempre più forte la necessità di pretendere, all’esterno della nostra piccola esperienza autogestita, tutto il welfare che ci serve. Per questo il 9 giugno siamo uscite dal giardino del doposcuola con i bambini e le famiglie e abbiamo fatto una passeggiata per il quartiere segnalando gli spazi vuoti e abbandonati di proprietà pubblica che potrebbero essere destinati ad attività come doposcuola, ludoteche, sportelli informativi, asili nido, eccetera. Infatti, non abbiamo bisogno che per questi servizi vengano costruite nuove strutture, magari disboscando parchi e aree verdi e aumentando ulteriormente la cementificazione e speculazione edilizia su un territorio già devastato e quasi completamente impermeabilizzato. Gli spazi esistono già e sono lasciati vuoti a marcire. Alcuni risultano assegnati con bando comunale, ma i lavori e le riaperture non sono mai iniziate. Altri, risultano ancora abbandonati e dimenticati.
Abbiamo concluso la nostra passeggiata davanti alla sede del comune, portandovi non solo i nostri corpi, i nostri bisogni e l’energia inesauribile dell3 bimb3, ma anche una mappatura di questi spazi vuoti già esistenti e la soluzione economica: con il PNRR sono stati stanziati fondi per tutto il paese per l’aumento dei nidi sui territori. Fondi che si rischia di dover restituire all’Europa perché non si è riusciti ad adempiere a questo compito entro i tempi stabiliti, il tutto a causa del solito scarico di responsabilità tra amministrazioni statali e comunali e la pachidermica burocrazia allegata. Ancora una volta, a rimetterci siamo noi. Con lo stesso piano di ripresa sono stati inoltre previsti 3 miliardi solo per la nostra città. Soldi che in parte devono essere utilizzati proprio per l’emergenza abitativa e noi non ci stuferemo mai di ripeterlo: abitare non vuol dire solo avere un tetto sopra la testa. Noi siamo parte del territorio su cui viviamo e vogliamo che sia a nostra misura. Siamo consapevoli che in questo quadro la responsabilità della mala gestione delle risorse e degli spazi non è solo del comune, ma anche dei soggetti istituzionali che vanno a comporre una macchina più grande e capillare. Per questo, il 7 luglio, un mese dopo essere andate al comune, abbiamo portato il rumore dei nostri bisogni sotto i servizi sociali. Con gli strumenti musicali autocostruiti dall3 bambin3 nei laboratori nel doposcuola abbiamo portato musica, voci, risate e desideri ad un’altra forma istituzionale del quartiere, così che nessuno possa ignorarci.
Se dal comune pretendiamo la costruzione e il recupero di servizi e spazi, dai servizi sociali pretendiamo strumenti, mediatori e aiuti per l’utilizzo e l’accesso a questi servizi. Da questo ufficio ci aspettiamo un sostegno concreto proiettato a quelli che sono i nostri bisogni ma anche i nostri desideri, e non una presenza invadente ed infantilizzante nelle nostre vite che ci fa sentire insufficienti e incapaci nella gestione della nostra vita e dei nostri figli solo perché siamo povere, senza casa o abbiamo titoli di studio non riconosciuti da questo paese.
Vogliamo welfare e servizi, vogliamo dignità e vite belle!! Vogliamo che la cura e il costo delle nostre famiglie non ricada esclusivamente sulle nostre spalle ma che venga cambiato il paradigma sociale basato sulla divisione di genere. La riproduzione sociale deve essere collettiva, gratuita e condivisa!

Non ci fermeremo qui. Continueremo a rivendicare a prenderci quello che ci spetta. Stay tuned…

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